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SANTI SONO IN MEZZO A VOI A
colloquio con Mons. Gaetano Michetti che ricorda i 40 anni di ordinazione episcopale
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Dobbiamo
ancora aprire i testi del Concilio Vaticano II. Per fortuna Giovanni Paolo
II vi fa continuamente riferimento in ogni suo intervento, in ogni suo
discorso, in ogni sua enciclica. |
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Fcp
ha raggiunto mons. Michetti nella sua abitazione a Corridonia dove si è
ritirato dopo aver concluso il suo servizio episcopale nella Diocesi di
Pesaro. Mons. Michetti,
nato a Corridonia il 5 marzo 1922, ordinato sacerdote l’8 agosto 1948
fu eletto vescovo alla Chiesa titolare di Irenopoli di Cilicia il 31
maggio 1961 e fu consacrato in Cattedrale a Fermo il 15 agosto 1961,
dove rimase come vescovo ausiliare e Vicario Generale fino al 1970.
Aveva appena 39 anni quando diventò Vescovo. E subito si trovò tra i
Padri del Concilio Vaticano II che cominciava. Qual è stata la
sua impressione del Concilio? Mi sono sentito
piccolo piccolo. Ero impaurito. La prima cosa che ho fatto fu quella di
prendere appunti. Ma mi accorgevo che man mano si andava avanti era
inutile prendere appunti. Tutto quello che scrivevo non era vero perché
non completo nel pensiero, nell’esperienza, nel confronto. E’ per
questo che si è dovuto impiegare più tempo del dovuto. Ma bisogna
convenire con chi afferma che non basta un secolo per studiare il
Concilio Vaticano II. Perché in
quell’epoca la Convocazione di un Concilio? Dopo la guerra, il
mondo era stato altro: altri valori, altre parole, altre definizioni,
altri impegni. Io ho avuto la fortuna di studiare dai Gesuiti alla
Gregoriana teologia e poi diritto. I Gesuiti sono bravi
nell’insegnare. E noi eravamo anche pronti a ripetere quelle lezioni
che abbiamo sempre trascritto e studiato. Ma esse non ci servivano con i
nostri fedeli. Non potevamo presentarci con il nostro linguaggio
metafisico. Altri vescovi
avevano una percezione più reale della situazione post-bellica? Sicuramente. Gente
meno inculturata di noi, con un latino più elementare, ma esprimevano i
mali del tempo con una lucidità, con una delicatezza e con una finezza
che ci meravigliava. Qual è
l’insegnamento più straordinario secondo lei del Vaticano II? Scendiamo anche noi
verso Gerico. C’è un sacerdote e un teologo che incontrano un ferito
sulla strada. Si dicono a vicenda: "Allontanati, non possiamo
renderci impuri". Il ferito intanto sta morendo. Arriva l’ateo lo
raccoglie, lo medica, lo porta all’ospedale, caccia i quattrini e
dice: Se non bastano, ripasso e pago. Non era la cattiveria, era un modo
di fare della nostra attività religiosa secondo certe regole. La
regola: "Passa al largo". La chiesa però ha avuto una risorsa
che l’ha sostenuta: lo Spirito Santo. E lo Spirito Santo non
disquisiva sopra un termine teologico ma faceva i santi. Ecco allora che
la Chiesa è la patria dei santi. Qual è il
documento principale che più scuote del Vaticano II? E’ la
Costituzione Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo
diretta all’uomo e ai suoi problemi. Basta scorrere i principali
capitoli: la dignità della persona umana, la comunità degli uomini,
l’attività degli uomini, la dignità del matrimonio e della famiglia,
la promozione del progresso e la cultura, la vita della comunità
politica, la promozione della pace e la comunità dei popoli. Si dice che Papa
Paolo VI abbia rivisto personalmente ogni documento. Risponde a verità? Un uomo di quel
genere ha riletto ogni parola in ginocchio. Quando passava avevo
l’impressione di vedere Gesù Cristo. Papa Paolo VI era un mistico.
Diceva la densità della fede con delicatezza e con la sua chiarezza
tipica. Qualcuno afferma
che non è stato un bene per la Chiesa il Concilio Vaticano II. Lei cosa
pensa? Io dal 1970 ho
fatto il Vescovo. Se ho detto qualcosa che ha interessato è stato di
insegnare che il Padre celeste ha mandato nel mondo Gesù Cristo per
morire sulla croce. "Per quest’ora son venuto io", diceva
Gesù. Ha insegnato un Dio che perdona, un Dio che ama, che è
accogliente, che è tenero, che soccorre, che non fa discriminazioni,
neanche tra battezzati e non battezzati. Questo è un discorso che
sconvolge ogni persona. È un amore testimoniato da Gesù Cristo, perché
è venuto a morire ammazzato per l’uomo. Un Dio che per la sua bontà
penetra nelle nostre angosce, dentro questa turbinosa esistenza
psicofisica. Ecco il Concilio ha riacceso una speranza, è stata una
ventata di spirito in un periodo, al seguito della guerra in cui la
gente soffriva. Papa Paolo VI è stato l’uomo della speranza. Ha
creduto profondamente nel Concilio. Dal Concilio
passiamo al suo ministero episcopale. Quali sono i ricordi di quel 15
agosto 1961? Sono ricordi che
restano nascosti nel loro mistero. Posso solo dire che ho chiesto di
accordare la mia vita al ministero per cui ero stato scelto. Prima di essere
vescovo ha avuto un’esperienza pastorale come parroco a Campofilone.
Quali sono i suoi ricordi? Ottimi. La gente
era buona. Lavorava intensamente ma era anche pronta ad esprimere la
fede in modo pubblico e solenne. Poi è stato
pastore nella Diocesi di Pesaro dove molti sacerdoti sono rimasti
edificati dal fatto che lei spesso si metteva al loro posto per
permettere loro un periodo di riposo. È così naturale.
Ogni Vescovo deve prendere coscienza di una realtà in cui i suoi preti
lavorano. Il Vescovo dirige, indirizza, prende decisioni. Ma il facchino
della chiesa è il prete. Facchino non in senso di disprezzo, ma in
senso di amore. Sono i preti quelli che vanno nelle realtà più
difficili. E allora la Chiesa si fa vicina nella massima forma alla
gente attraverso il presbitero. È per questo che ci inquieta un po’
il fatto della crisi del sacerdozio. A questo proposito,
perché la figura del sacerdote è in crisi? È difficile dirlo.
Ma la crisi l’uomo la porta dentro. Si pensa erroneamente che il
bambino viene su bene se viene curato bene dai genitori; viene su male
se viene abbandonato dai genitori. Chissà invece che cosa può
scoppiare dentro ogni uomo. Chissà che cos’è l’uomo? A parte il
bene sommo della educazione, la nostra speranza è Gesù Cristo. Ritorniamo alla sua
esperienza episcopale. Qual è stata un’esperienza importante nel suo
ministero? A me capitò di
venire in contatto a Bologna con l’Oasi Perfetta Letizia, creata dalla
Dottoressa neurologa Giovanna Vena, consacrata francescana, che apriva
le porte con accoglienza, amicizia, sorriso, riposo e rigorosi aiuti
scientifici ad Anime Consacrate in crisi. Soprattutto faceva
sperimentare le parole del Signore: "Venite in disparte e
riposatevi un po’" così cariche di tenerezza. Lei prima di essere
pastore della chiesa di Pesaro è stato per una decina di anni a Fermo
facendo l’ausiliare a mons. Norberto Perini. Cosa ricorda? È stato, nel suo
tempo, un grande pastore. Nelle sue omelie era ricco di letteratura, di
vita dei santi, di buon senso, di virtù. Era un altro linguaggio. Oggi
certamente un sacerdote novello è molto più preparato a parlare della
parola di Dio che un pastore di quei tempi. Ma è stato un grande
pastore perché aveva una finezza proverbiale. Sapeva valorizzare le
potenzialità di ogni suo prete. Non mortificava mai nessuno. Se volesse
riassumere il suo ministero della parola con un’espressione, cosa
direbbe? Due elementi: la
misericordia di Dio e la speranza. La gente ne ha bisogno. Ci sono alcuni
sacerdoti che pensano che la sua sistemazione qui a Corridonia,
appartato, al servizio del parroco sia una diminuzione della pienezza
dell’ordine sacro. È così? No, io non sono
meno vescovo. Io sono sempre nella pienezza dell’episcopato. Ma adesso
io vado a celebrare Messa in parrocchia mettendomi a disposizione del
parroco. Io non posso disturbare minimamente il parroco. Il parroco deve
fare il parroco, assumersi le sue responsabilità: presiedere,
predicare, dare gli avvisi. Io sconvolgerei questo ordine. La parrocchia
è un gruppo di persone che si raduna per celebrare l’Eucarestia
intorno al parroco che è stato inviato lì dal Vescovo. Molte persone hanno
notato la sua testimonianza umile, fedele e costante al servizio della
parrocchia. Dicono che lei è un vero presbitero prima di essere
vescovo. Quali sono le qualità che deve avere un ragazzo per discernere
la sua vocazione al presbiterato? Sono facili in
questo campo le pie esagerazioni. Un ragazzo deve avere un gruppo serio
di amici con il quale mettersi in gioco. L’esperienza di cui ha
bisogno il sacerdote è che ci sia una risonanza in ciò che testimonia.
Ecco allora il motivo per cui un amico di Francesco di Bernardone è
diventato fra Leone. Gli amici sono quelli che sono toccati dalla
ricerca significativa di uno. Si subisce il fascino di un giovane che fa
seriamente il cristiano e non si vergogna di parlarne con gli amici. Un’ultima
domanda, Eccellenza: A questo punto
mons. Michetti ci offre una bibita fresca. La giornata è calda. Nel suo
studio dove, sereno e tranquillo, trascorre la maggior parte della sua
giornata, ci mostra una lente di ingrandimento che è costretto ad usare
in seguito ad un intervento di cataratta. Tuttavia con gli occhi
sprizzanti luce e con il gesto delle mani che evoca la gestazione delle
idee risponde:
ndg |
UT VITAM HABEANT! (Affinché abbiano la vita)
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