I SANTI SONO IN MEZZO A VOI

A colloquio con Mons. Gaetano Michetti

che ricorda i 40 anni di ordinazione episcopale

 

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Dobbiamo ancora aprire i testi del Concilio Vaticano II. Per fortuna Giovanni Paolo II vi fa continuamente riferimento in ogni suo intervento, in ogni suo discorso, in ogni sua enciclica. Questa è la provocazione di Mons. Gaetano Michetti che ricorda il suo 40° anniversario di ordinazione episcopale il 15 agosto prossimo. Presiederà lui il Pontificale nella Cattedrale di Fermo in occasione della festa dell’Assunta insieme ai sacerdoti che ricordano i 60 anni di sacerdozio (don Dante Raccichini e mons. Giuseppe Di Chiara) e i 50 anni di sacerdozio (don Luigi Campanelli, don Giuseppe Coccia, mons. Elio Frumenti, mons. Armando Marziali, mons. Silvio Rastelli, mons. Ubaldo Speranza, don Gino Virgili, mons. Saul De Paolis).

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Fcp ha raggiunto mons. Michetti nella sua abitazione a Corridonia dove si è ritirato dopo aver concluso il suo servizio episcopale nella Diocesi di Pesaro.

Mons. Michetti, nato a Corridonia il 5 marzo 1922, ordinato sacerdote l’8 agosto 1948 fu eletto vescovo alla Chiesa titolare di Irenopoli di Cilicia il 31 maggio 1961 e fu consacrato in Cattedrale a Fermo il 15 agosto 1961, dove rimase come vescovo ausiliare e Vicario Generale fino al 1970. Aveva appena 39 anni quando diventò Vescovo. E subito si trovò tra i Padri del Concilio Vaticano II che cominciava.

Qual è stata la sua impressione del Concilio?

Mi sono sentito piccolo piccolo. Ero impaurito. La prima cosa che ho fatto fu quella di prendere appunti. Ma mi accorgevo che man mano si andava avanti era inutile prendere appunti. Tutto quello che scrivevo non era vero perché non completo nel pensiero, nell’esperienza, nel confronto. E’ per questo che si è dovuto impiegare più tempo del dovuto. Ma bisogna convenire con chi afferma che non basta un secolo per studiare il Concilio Vaticano II.

Perché in quell’epoca la Convocazione di un Concilio?

Dopo la guerra, il mondo era stato altro: altri valori, altre parole, altre definizioni, altri impegni. Io ho avuto la fortuna di studiare dai Gesuiti alla Gregoriana teologia e poi diritto. I Gesuiti sono bravi nell’insegnare. E noi eravamo anche pronti a ripetere quelle lezioni che abbiamo sempre trascritto e studiato. Ma esse non ci servivano con i nostri fedeli. Non potevamo presentarci con il nostro linguaggio metafisico.
La gente, dopo la guerra, aveva altre esigenze. Al seguito del conflitto mondiale c’è stato uno sconvolgimento nelle famiglie con i 60/70 milioni di morti con tutte le conseguenze di pianto, dolore, distruzione, sofferenze, mentre nuove ideologie di morte, oppressive di ogni libertà dilagavano, contrarie alla pace. I torbidi anni della guerra fredda! Noi non abbiamo avuto molti morti, per fortuna, ma molti morti spirituali sì, perché la gente non voleva la guerra, non voleva questa sofferenza. La Chiesa si è trovata di fronte a realtà nuove. Spunta il giorno nuovo senza essere pronti. Ecco "l’aggiornamento" che voleva nella sua sapienza il beato Papa Giovanni XXIII.
Per verità noi giovani sacerdoti e poi io vescovo guardavamo la chiesa con una ingenuità paurosa. Avevamo un programma ben preciso da applicare nel nostro servizio, fatto di adunanze, di feste, di predicazioni, di devozioni... Ma "marginalità" davanti al problema dell’uomo. Là dove si piangeva...

Altri vescovi avevano una percezione più reale della situazione post-bellica?

Sicuramente. Gente meno inculturata di noi, con un latino più elementare, ma esprimevano i mali del tempo con una lucidità, con una delicatezza e con una finezza che ci meravigliava.

Qual è l’insegnamento più straordinario secondo lei del Vaticano II?

Scendiamo anche noi verso Gerico. C’è un sacerdote e un teologo che incontrano un ferito sulla strada. Si dicono a vicenda: "Allontanati, non possiamo renderci impuri". Il ferito intanto sta morendo. Arriva l’ateo lo raccoglie, lo medica, lo porta all’ospedale, caccia i quattrini e dice: Se non bastano, ripasso e pago. Non era la cattiveria, era un modo di fare della nostra attività religiosa secondo certe regole. La regola: "Passa al largo". La chiesa però ha avuto una risorsa che l’ha sostenuta: lo Spirito Santo. E lo Spirito Santo non disquisiva sopra un termine teologico ma faceva i santi. Ecco allora che la Chiesa è la patria dei santi.
Molti vescovi prima di cominciare la sessione conciliare si inginocchiavano davanti alla tomba di San Pio X, che aveva fama di non aver capito i suoi tempi.

Qual è il documento principale che più scuote del Vaticano II?

E’ la Costituzione Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo diretta all’uomo e ai suoi problemi. Basta scorrere i principali capitoli: la dignità della persona umana, la comunità degli uomini, l’attività degli uomini, la dignità del matrimonio e della famiglia, la promozione del progresso e la cultura, la vita della comunità politica, la promozione della pace e la comunità dei popoli.

Si dice che Papa Paolo VI abbia rivisto personalmente ogni documento. Risponde a verità?

Un uomo di quel genere ha riletto ogni parola in ginocchio. Quando passava avevo l’impressione di vedere Gesù Cristo. Papa Paolo VI era un mistico. Diceva la densità della fede con delicatezza e con la sua chiarezza tipica.

Qualcuno afferma che non è stato un bene per la Chiesa il Concilio Vaticano II. Lei cosa pensa?

Io dal 1970 ho fatto il Vescovo. Se ho detto qualcosa che ha interessato è stato di insegnare che il Padre celeste ha mandato nel mondo Gesù Cristo per morire sulla croce. "Per quest’ora son venuto io", diceva Gesù. Ha insegnato un Dio che perdona, un Dio che ama, che è accogliente, che è tenero, che soccorre, che non fa discriminazioni, neanche tra battezzati e non battezzati. Questo è un discorso che sconvolge ogni persona. È un amore testimoniato da Gesù Cristo, perché è venuto a morire ammazzato per l’uomo. Un Dio che per la sua bontà penetra nelle nostre angosce, dentro questa turbinosa esistenza psicofisica. Ecco il Concilio ha riacceso una speranza, è stata una ventata di spirito in un periodo, al seguito della guerra in cui la gente soffriva. Papa Paolo VI è stato l’uomo della speranza. Ha creduto profondamente nel Concilio.
Molti però non lo hanno compreso allora e continuano a non comprenderlo oggi.
Certo perché lui era un mistico e percepiva per primo e in profondità il problema dell’uomo. Ha scritto un testamento in cui si legge: "Ho molto amato la Chiesa e vorrei che la Chiesa lo sapesse".

Dal Concilio passiamo al suo ministero episcopale. Quali sono i ricordi di quel 15 agosto 1961?

Sono ricordi che restano nascosti nel loro mistero. Posso solo dire che ho chiesto di accordare la mia vita al ministero per cui ero stato scelto.

Prima di essere vescovo ha avuto un’esperienza pastorale come parroco a Campofilone. Quali sono i suoi ricordi?

Ottimi. La gente era buona. Lavorava intensamente ma era anche pronta ad esprimere la fede in modo pubblico e solenne.

Poi è stato pastore nella Diocesi di Pesaro dove molti sacerdoti sono rimasti edificati dal fatto che lei spesso si metteva al loro posto per permettere loro un periodo di riposo.

È così naturale. Ogni Vescovo deve prendere coscienza di una realtà in cui i suoi preti lavorano. Il Vescovo dirige, indirizza, prende decisioni. Ma il facchino della chiesa è il prete. Facchino non in senso di disprezzo, ma in senso di amore. Sono i preti quelli che vanno nelle realtà più difficili. E allora la Chiesa si fa vicina nella massima forma alla gente attraverso il presbitero. È per questo che ci inquieta un po’ il fatto della crisi del sacerdozio.
Ho sentito che nell’Europa del nord, i sacerdoti stanno scomparendo e non c’è nessuno che possa sostituirli. Questo è un vero problema.

A questo proposito, perché la figura del sacerdote è in crisi?

È difficile dirlo. Ma la crisi l’uomo la porta dentro. Si pensa erroneamente che il bambino viene su bene se viene curato bene dai genitori; viene su male se viene abbandonato dai genitori. Chissà invece che cosa può scoppiare dentro ogni uomo. Chissà che cos’è l’uomo? A parte il bene sommo della educazione, la nostra speranza è Gesù Cristo.

Ritorniamo alla sua esperienza episcopale. Qual è stata un’esperienza importante nel suo ministero?

A me capitò di venire in contatto a Bologna con l’Oasi Perfetta Letizia, creata dalla Dottoressa neurologa Giovanna Vena, consacrata francescana, che apriva le porte con accoglienza, amicizia, sorriso, riposo e rigorosi aiuti scientifici ad Anime Consacrate in crisi. Soprattutto faceva sperimentare le parole del Signore: "Venite in disparte e riposatevi un po’" così cariche di tenerezza.
Non servono le cosiddette "parole forti". So che tali esperienze in Italia non mancano. E molto valgono perché secondo il Concilio Vaticano II, il Vescovo faccia sentire la sua amicizia e la sua paternità. Sono grato all’Oasi Perfetta Letizia, che ora opera in Cotignola, per l’aiuto al mio Clero.

Lei prima di essere pastore della chiesa di Pesaro è stato per una decina di anni a Fermo facendo l’ausiliare a mons. Norberto Perini. Cosa ricorda?

È stato, nel suo tempo, un grande pastore. Nelle sue omelie era ricco di letteratura, di vita dei santi, di buon senso, di virtù. Era un altro linguaggio. Oggi certamente un sacerdote novello è molto più preparato a parlare della parola di Dio che un pastore di quei tempi. Ma è stato un grande pastore perché aveva una finezza proverbiale. Sapeva valorizzare le potenzialità di ogni suo prete. Non mortificava mai nessuno.

Se volesse riassumere il suo ministero della parola con un’espressione, cosa direbbe?

Due elementi: la misericordia di Dio e la speranza. La gente ne ha bisogno.

Ci sono alcuni sacerdoti che pensano che la sua sistemazione qui a Corridonia, appartato, al servizio del parroco sia una diminuzione della pienezza dell’ordine sacro. È così?

No, io non sono meno vescovo. Io sono sempre nella pienezza dell’episcopato. Ma adesso io vado a celebrare Messa in parrocchia mettendomi a disposizione del parroco. Io non posso disturbare minimamente il parroco. Il parroco deve fare il parroco, assumersi le sue responsabilità: presiedere, predicare, dare gli avvisi. Io sconvolgerei questo ordine. La parrocchia è un gruppo di persone che si raduna per celebrare l’Eucarestia intorno al parroco che è stato inviato lì dal Vescovo.

Molte persone hanno notato la sua testimonianza umile, fedele e costante al servizio della parrocchia. Dicono che lei è un vero presbitero prima di essere vescovo. Quali sono le qualità che deve avere un ragazzo per discernere la sua vocazione al presbiterato?

Sono facili in questo campo le pie esagerazioni. Un ragazzo deve avere un gruppo serio di amici con il quale mettersi in gioco. L’esperienza di cui ha bisogno il sacerdote è che ci sia una risonanza in ciò che testimonia. Ecco allora il motivo per cui un amico di Francesco di Bernardone è diventato fra Leone. Gli amici sono quelli che sono toccati dalla ricerca significativa di uno. Si subisce il fascino di un giovane che fa seriamente il cristiano e non si vergogna di parlarne con gli amici.

Un’ultima domanda, Eccellenza:
Cosa suggerirebbe ai presbiteri? Quale consiglio potrebbe essere fruttuoso nel ministero presbiterale?

A questo punto mons. Michetti ci offre una bibita fresca. La giornata è calda. Nel suo studio dove, sereno e tranquillo, trascorre la maggior parte della sua giornata, ci mostra una lente di ingrandimento che è costretto ad usare in seguito ad un intervento di cataratta. Tuttavia con gli occhi sprizzanti luce e con il gesto delle mani che evoca la gestazione delle idee risponde:
Di essere cercatori dei santi. In questi anni, stando in mezzo alle persone ho scoperto la loro santità. Ho incontrato persone semplici che sono silenziose, non si lamentano mai, pregano ogni giorno, fanno la carità, pensionati che con 700 mila lire al mese riescono a mettere da parte l’offerta per le missioni e per la caritas o per la parrocchia. Ecco allora l’invito ai presbiteri: sostenete queste persone, questi santi che sono in mezzo a noi. Il regno di Dio è loro.

       ndg

UT VITAM HABEANT!

(Affinché abbiano la vita)

Questa è l'espressione che sigla lo stemma scelto nel 1961 da Mons. Gaetano Michetti per il programma del suo ministero episcopale. Un leone inquarta la prima metà e ricorda Campofilone, terra di apostolato del Vescovo ausiliario; nell'altra parte il pesce, simbolo di Cristo Salvatore degli uomini, ed il pane eucaristico, nutrimento della salvezza (così come lo concretizzarono i primi Cristiani nell'ombra delle Catacombe). UT VITAM HABENT! In questo motto, riportato sotto lo stemma, è racchiusa l'eco del mandato apostolico ed il proposito di attuarlo con tutta la dedizione di un'anima consacrata a Dio
(il cappello episcopale che sovrasta tutte le figure simboleggia proprio questo).

 

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