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   Cappellania Ospedaliera 
"Fatebenefratelli e Oftalmico"

"I l    M e l o g r a n o"
foglio familiare della Cappellania dell'Ospedale

"Fatebenefratelli e Melloni"

fondato da Mons. Luigi Gerli.
                                                         

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TI aspetto ... e sei atteso!
 
 

n. 2 – estate 2008

Invito - per tutti - il 25 settembre, ore 14,30
per la Festa Patronale della “Macedonio Melloni"
in onore di s. Vincenzo dè Paoli.

Verrà a pregare PER noi e CON noi, mons. Ennio Apeciti.

 

Al Fatebene... la festa sarà il 28 novembre, nel ricordo di S. Giovanni di Dio

  

MA NON MANDIAMO IN VACANZA IL CUORE

Nell’affrontare il consueto appuntamento estivo, con il quale il nostro foglio intende, con levità e disimpegno, augurare a tutti il meritato riposo, sommessamente elogiando un dolce far niente ristoratore e propedeutico a proficue meditazioni, ci troviamo sfiorati dalla burrasca che ha sconvolto la “sanità”, proprio a Milano e non ci tiriamo cinicamente fuori, fingendo che la cosa  non ci riguardi, dal momento che non ne siamo solo toccati per contiguità di “ambiente”, ma l’episodio, amarissimo in sé, ha sconvolto consolidati principi di etica, deontologia, prassi, in una parola di giustizia, a cui, come cristiani siamo particolarmente sensibili. I fatti della clinica “S. Rita”, non solo hanno fatto strage delle leggi umane, sempre modificabili e perciò provvisorie, ma hanno tentato di sopraffare la norma divina, eterna ed  inalterabile, inscritta, al di là della volontà umana,  direttamente nel cuore di ciascun uomo, il quale nell’intimo della sua coscienza sa percepire cosa è bene e cosa è male, cosa è giusto e cosa non lo è. E scegliere un  comportamento piuttosto che un altro diventa assunzione di responsabilità di fronte al mondo, a se stessi, a Dio.
Non esistono palingenesi collettive, redenzioni sociali acquisite con assemblee di gruppo.  La coscienza è una delle prove oggettive dell’esistenza di Dio ed è l’ambito più genuino e diretto in cui ogni uomo è invitato a giustificare le proprie azioni, che attengono sempre ad una responsabilità individuale ineludibile. Quindi condanniamo, esecriamo, deploriamo, ma non generalizziamo. Le regole calpestate, in questo caso, come in molti altri, non sono semplicemente quelle che inflazionano i mansionari di ogni attività professionale, ma il limpidissimo principio che il nostro cuore sa riconoscere per istinto quando è chiamato a rapportarsi con il suo prossimo, specie se sofferente, debole ed inerme: quella capacità di provare compassione, che è il carattere distintivo della razza umana, biologicamente così simile alle altre specie viventi, ma emotivamente così lontano.  Lo scandalo  pertanto non sta nella valutazione criminale delle priorità ( soldi, successo, visibilità professionale),  ma nella disinvoltura, con cui ci si è cinicamente spogliati  delle proprie prerogative umane di eccellenza.  

Ribadiamo quindi con forza l’appello del titolo, che non vorremmo circoscritto alla realtà ospedaliera.  Le turbolenze sociali e politiche, di cui siamo testimoni ed attori, ci danno l’occasione ogni giorno di verificare quanto del messaggio cristiano siamo individualmente in grado di testimoniare,  convinti come siamo che la soluzione di molti problemi sarebbe meno complessa se dai singoli, non dagli Stati,  ci si aspettasse l’adesione al messaggio stesso, che da una Croce insanguinata e dolentissima, non suggerisce formali esibizioni di dolciastri e vaghi minuetti, ma indica, a chi Le sta in ginocchio davanti, una tortuosissima strada di altrettante lacrime e sangue.

La consapevolezza di ciò rende forti e disponibili, abili nel soccorrere, giusti nel giudizio e concreti nelle opere.

In fondo è quanto Benedetto XVI grida con forza dall’inizio del suo pontificato: meno sociologia e più cristianesimo, più ragione e meno emozioni, più verità e meno fantasia, più amore di impegno che di dichiarazioni compiaciute. Ed è quanto ha ribadito al convegno della diocesi di Roma, dove è stato riaffermato con accenti intensi il  Primato dell’amore, come ben evidenziato dal resoconto dell’Osservatore Romano, che abbiamo il piacere di riportare qui di seguito.

 

Il Papa rilancia il primato dell’amore.

Nello stile di Benedetto XVI, di fronte alle soluzioni per i piccoli e grandi problemi della città dell'uomo, viene prima l'accoglienza e poi la sicurezza. Di più: viene prima la compassione.

Anche di fronte al nodo dell'immigrazione che scuote le società del benessere, dall'insegnamento di Papa Ratzinger emerge rafforzata l'anomalia cristiana del primato dell'amore. L'icona evangelica del samaritano ri­corda che curare e guarire con amo­re pure lo straniero è la norma di vi­ta cristiana.

Persino l'apertura intellettuale al­l'incontro tra le culture privilegia l'accoglienza alla discriminazione. «Alla fede cristiana - ha ricordato Benedetto XVI - spetta questo merito sto­rico, di aver suscitato nell'uomo, in maniera nuova e a una profondità nuova, la capacità di condividere an­che interiormente la sofferenza del­l'altro, che così non è più solo nella sua sofferenza, e anche di soffrire per amore del bene, della verità e della giustizia». Al convegno della diocesi di Roma, il Papa ha offerto una sintesi del suo magistero, che spera di accompagnare donne e uo­mini a una seria presa d'atto dell'es­sere cristiani. Fare questo passo che sconvolge la vita è ragionevole e comporta una speranza che non de­lude. Una vita cristiana si fonda in­fatti sulla risurrezione di Cristo, un fatto avvenuto nella storia «di cui gli apostoli sono stati testimoni e non certo creatori». Ratzinger sostiene che la risurrezione - anche a noi promessa - è la più grande mutazio­ne mai accaduta, il salto verso una dimensione di vita profondamente nuova. Solo nella luce del Risorto dai morti «possiamo comprendere le vere dimensioni della fede cristiana». E’ la risurrezione che rende l'essere cri­stiani un caso serio da verificare con apertura mentale e senza pregiudizi.

Vivere nel segno della speranza cristiana della risurrezione - convie­ne il Papa - non è facile a Roma co­me nel resto del mondo. Si vive una sensazione di precarietà e incertezza, nonostante i miglioramenti della scienza e della tecnologia. Riconoscere alla scienza l’enorme contributo al progresso e al miglioramento della vita è importante, ma ancor di più lo è la convinzione che non è la scienza a redimere l'uomo ma l'amore.

Nella nostra civiltà si è insinuata troppa paura e l'amore rischia di af­fievolirsi. Se l'architrave della convi­venza civile diventa la sicurezza indi­viduale, nel tempo si mette in perico­lo la libertà e dimentichiamo come si ama. Il Papa è perciò esigente anzi­tutto con i credenti, perché dal loro modo di vivere la fede, la speranza e la carità, dalla loro capacità di condi­visione specialmente con le attese dei più poveri, dipende la qualità della testimonianza data alla risurrezione di Gesù e quindi la credibilità della Chiesa. In particolare Benedetto XVI ha più a cuore l'amore che l'apologia e ripete che prima di ogni cosa viene l'amore, poiché sull'amore saremo giudicati alla fine della vita. Egli chie­de ai cattolici di essere capaci di amare. L'esempio dei santi, ricorrente nella sua predicazione, è una me­moria viva della possibilità di vivere amando in forma disinteressata e fa­cendo del bene. Anche l'emergenza educativa, intorno a cui ruota il ri­lancio della pastorale e della presen­za cristiana, si risolve nell'amore: un esame di coscienza generale sulla ca­pacità di amare e di mettere amore nelle strutture sociali da parte dei cri­stiani sarebbe un contributo rilevante a formare una gioventù e una società di adulti responsabili.

Le radici cri­stiane a cui si chiede di tornare, altro non sono che il pensare e il costruire la civiltà dell'amore. O almeno tendervi con tutte le forze.

Il risveglio della coscienza cristiana al primato dell'amore, fondato sulla speranza che non delude, è 1'ob­iettivo programmatico persistente del pontificato di Benedetto. L'amore è ormai la parola più ricorrente in ogni sua catechesi.

Amore che non è vago sentimentalismo, ma vita tra­sformata, capace di servizio.

Lo ha detto persino agli ecclesiastici dell'acca­demia diplomatica vaticana.

La spinta propulsiva per garantire la fe­de cristiana nelle reti della storia che bussa alle porte, dal sapore globalizzato, rimane l'amore.                           

Ci sembra pertanto in perfetta sintonia con tutto quanto sopra evidenziare la fattiva operosità del nostro ospedale, che non conosce soste, che si arricchisce costantemente di potenzialità di servizio, mettendo a disposizione dell’utenza un notevole patrimonio di tecnologia ed umanità, come anche le varie lettere di ringraziamento, riportate più avanti, mettono ben in luce.

E con questo brivido di orgoglio per far parte, nel nostro piccolo, di una organizzazione sempre tesa a perfezionare sfericamente se stessa, auguriamo di cuore buone vacanze.

 

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Curare, sostenere e proteggere il corpo sofferente. 

mons. Gianfranco Ravasi
Il corpo umano, nella Bibbia, è una componente capitale della persona, a differenza del mondo greco che lo considerava come una pesante zavorra, una sorta di tomba dell'anima, tant'è vero che si faceva un gioco di parole sui due vocaboli greci assonanti soma, “corpo”, e sèma, “tom­ba”. Tutto questo non accade nella visione biblica per la qua­le anima e corpo sono inscindibili: non per nulla si procla­ma, per la fine dei tempi, la risurrezione dei morti, con tut­to il loro essere, in una nuova dimensione. Anzi, il cristiane­simo ha il suo mistero centrale nell'Incarnazione: il Verbo eterno, cioè il Figlio divino, non appare come spirito nella storia degli uomini ma “diventa carne” (Gv 1, 14). È per que­sto che i corpi non sono appendici secondarie ma partecipano della salvezza offerta da Cristo che è anch' egli un corpo tra i corpi. In questa linea si comprende perché Gesù si preoccupi così tanto delle guarigioni fisiche dei sofferenti e perché San Paolo giunga fino al punto di scrivere che il “no­stro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in noi e che ab­biamo da Dio” (1 Cor 6, 19). Altro che sepolcro di morte, il corpo è un tempio del Dio vivente! Il cristiano, allora, deve curare, custodire e non dissacrare il corpo tant' è vero che è ancora l'Apostolo a chiedere ai cristiani di Roma di “offrire i corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio e questo è il culto spirituale” (Rom 12, 1). Perciò, tutti coloro che si im­pegnano a curare, a sostenere, a proteggere il corpo soffe­rente non esercitano solo una professione specifica ma, se sono persone di fede o dotate di una loro spiritualità, adem­piono a una vocazione e a una missione.

In questa luce pos­siamo fare un cenno molto sintetico al medico secondo la Bibbia. Sappiamo che nella storia della cul­tura ci sono atteggiamenti diversi, tra loro antitetici, naturalmente con eccessi ma an­che con qualche fondamento. Il filosofo te­desco Leibniz (1646-1716) giungeva fino al punto di dire che “un grande dottore uccide più gente di un grande generale” e, nel Ma­lato immaginario, il celebre commediografo francese del '600 Molière metteva in bocca a un personaggio questa battuta contro un medico: “Ne deve aver ammazzato di gente per essere diventato così ricco!”. Il famoso autore dei Viaggi di Gulliver, lo scrittore ingle­se Jonathan Swift (1667-1745), affermava senza esitazione e con evidente sarcasmo: “Gli antichi credevano che Apollo, dio della medicina, fosse anche quello che mandava le malattie. In origine i due mestieri ne for­mavano uno solo: ebbene, è ancora così!”. Qualcosa del genere si registra anche nei Vangeli che pure annoverano tra i loro auto­ri anche un medico, l'evangelista Luca che esercitava tale professione se stiamo a una nota della Lettera ai Colossesi di San Paolo (“Luca, medico a me carissimo” 4, 14).
Nei Vangeli, infatti, leggiamo: “Voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso!”. Le parole che Gesù rivolge ai suoi compaesani di Nazaret (Lc 4, 23) riflettono un detto popolare che va nella direzione ironica a cui finora abbiamo accennato. Come lo è quell'altro che lo stesso Gesù oppone ai farisei: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico ma i malati” (Mt 9, 12). La figura del medico anche nella Bibbia è considerata in modo ambiguo. Inoltre dominava la concezione che alla base di una malattia ci fosse un peccato, per cui era più necessario ricorrere al sacerdote per espiare la colpa che farsi visitare da un medico. Non mancano, inoltre, le tipiche ironie popolari come quella a proposito della cecità di Tobia: “Più i medici mi ap­plicavano farmaci, più mi si oscuravano gli occhi finché divenni cieco del tutto” (2, 10).

O come quella di Marco nel caso della “donna che da dodici anni era affetta da emorragia e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando” (Mc 5, 26).

Eppure abbiamo anche un profilo posi­tivo del medico. Nel libro del Siracide, sapiente biblico vissuto nel II secolo a.C., ad esempio, ci si incontra in un brano che esal­ta la missione del medico e la funzione della medicina, accostandole alla salvezza che vie­ne offerta dal Creatore. Ecco il testo nella sua sostanza. Lo dedichiamo ai medici, a tut­ti gli operatori sanitari e anche ai pazienti. “Onora il medico come si deve secondo il bi­sogno. La scienza del medico lo fa procede­re a testa alta. Il Signore ha creato i medica­menti e l'uomo assennato non li disprezza. Con essi il medico cura ed elimina il dolore. Nella malattia fa' venire anche il medico perché ne hai bisogno: ci sono casi in cui il successo è nelle loro mani. Anch' essi prega­no il Signore perché li guidi felicemente ad alleviare la malattia e a risanarla così che il malato ritorni in vita” (Sir 38, 1-14). Ebbene, tra le malattie che il medico deve curare ce n'è una che nell'antichità biblica aveva un valore simbolico particolare, la lebbra. La lebbra è una malattia endemica in alcuni paesi del Vicino Oriente e dell'Africa, ma è presente in tante altre regioni del mondo, compresa l'Italia, sia pure in forma molto contenuta. La Bibbia, però, sotto questo ter­mine raccoglieva diverse affezioni della pel­le di gravità decisamente inferiore e giunge­va fino al punto di identificare la lebbra del­le case, degli abiti e del cuoio, cioè la forma­zione di muffa, salnitro e licheni. Secondo la citata concezione secondo la quale si ritene­va che ci fosse un nesso tra peccato e malat­tia, il lebbroso doveva segnalare da lontano, appena si profilava all' orizzonte una perso­na sana, la sua presenza gridando: “Immon­do! Immondo!”. Infatti, come si vede nel li­bro biblico del Levitico, il testo delle norme rituali, al capitolo 13, la lebbra era conside­rata segno di un delitto infame e il lebbroso era in pratica uno “scomunicato” non solo perché portava con sé il rischio di un conta­gio fisico ma anche perché rappresentava quasi l'emblema di un peccato grave che do­veva essere isolato. In questa luce era una delle malattie “incurabili” in senso stretto. Ma è proprio qui che appare a sorpresa la scelta di Cristo “medico” nei confronti del lebbroso. Egli non solo non cambia strada, ma va incontro a questo sventurato e, come narra Marco (1, 41), “mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, guarisci!”. Egli tocca il segregato per eccel­lenza, l'isolato, l'infettato, il contagioso, l'im­mondo, l'impuro, ma non per restarne coin­volto, bensì per liberarlo da una sofferenza umiliante. La guarigione di questo infelice diventa altamente simbolica della lotta che Cristo ha ingaggiato col male in tutte le sue manifestazioni. Ed è per questo che anche il discepolo di Cristo dovrà mettersi per le stra­de del mondo e “guarire i lebbrosi e a caccia­re i demoni” (Mt 10, 8). Nella stessa linea va un'altra guarigione operata da Cristo. Incastonato all'interno della narrazione della fi­glia di Giairo, capo della sinagoga di Cafar­nao, c'è l'episodio della “donna che da dodi­ci anni era affetta da emorragia” (Mc 5, 25­34). Su questa affezione Marco tesse una di­vertita ironia nei confronti dei medici: “Ave­va molto sofferto per opera di molti medici spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando”. La sindrome dell' emorragia femminile nell'antico Israele andava, però, al di là di una pura e semplice questione medica. Aveva risvolti di tipo ritua­le e sociale. Per poterli capire dobbiamo leg­gere insieme ancora un paragrafo del libro del Levitico, un testo attento a segnalare tut­to ciò che rendeva ritualmente impura una persona o una cosa. Ecco quanto si scrive do­po una serie di norme riguardanti il flusso mestruale: “La donna che ha un flusso di sangue per molti giorni, fuori del tempo del­le regole, o che lo abbia più del normale sarà impura per tutto il tempo del flusso. Ogni giaciglio sul quale si coricherà durante il tempo del flusso sarà impuro, ogni mobile sul quale siederà sarà impuro; chiunque toc­cherà quelle cose sarà impuro, dovrà lavarsi le vesti, bagnarsi nell'acqua e sarà impuro fi­no a sera” (15, 25-27). Come si vede, la don­na emorroissa era sottoposta a un rigido re­gime di controllo sacro, che rendeva la vita difficile a lei e a chi le stava vicino e le impe­diva di accedere al culto e di vivere una sere­na e normale esistenza sociale. Il sangue es­sendo considerato sede della vita, era intoc­cabile e isolava chi lo sentiva colare dalle sue ferite o dai suoi organi. Per questo l'emorra­gia era un dramma anche spirituale. Solo la forza salvatrice di Cristo, ottenuta non per magia (toccando il mantello) ma per fede (“figlia, la tua fede ti ha salvata”), può ridare salute e serenità”.

La dotta ed illuminante dissertazione di mons. Ravasi  ben si presta ad introdurre la nostra consueta rubrica che va sotto il nome di “Pagina della Riconoscenza... Buona Sanità”, questa volta particolarmente ricca ed emozionante.  Il rapporto medici-malati, conflittuale e tormentato, come si è letto più sopra, fin dalle origini dei tempi, si trasforma attraverso la divina persona di Cristo in occasione di reciproco arricchimento e perseguito benessere. La malattia fa male e fa bene al tempo stesso: corpo ed anima ne sono toccati contemporaneamente, ma i tempi ed i modi per superarla sono diversi. Ai nostri giorni, tutto dipende dal tipo di esperienza che ci viene offerta nei nostri ospedali, spesso (non sempre, purtroppo) eccellenti per il corpo, raramente gratificanti per l’anima. E lo squilibrio pesa e ferisce sia i malati che i loro familiari. Le lettere che pubblichiamo in questo numero rappresentano, come sempre, una zona di luce, di cui andiamo tutti giustamente orgogliosi, ma con un trasporto emotivo più carico del solito, al punto che alcuni ringraziamenti trovano nella forma poetica il linguaggio adeguato alla piena del cuore. E’ evidente che proprio anche il cuore ha qui ricevuto elevate dosi di balsamo. Al solito, Oncologia ne esce alla grande.

 Pagina della Riconoscenza…  LA BUONA SANITÀ

 

Tutti gli ambienti hanno pavimenti e rivestimenti in mate­riale vinilico, Ricordo di Regina Bellasio
Nella tarda mattinata del 12 marzo 2005 Regina ci ha lasciato, dopo una lunga battaglia di mesi contro un male feroce e crudele, che alla fine ha avuto la meglio sulla sua voglia di vivere e di lottare. Nell' arco di poche ore la notizia, appresa da molti con incredulità e tristezza, ha fatto il giro dei reparti e ha varcato i confini dell' ospedale per raggiungere anche chi non lavora più in esso da anni. Entrata in servizio all'età di 16 anni, Regina ha speso 36 anni della sua esistenza tra le mura di questo Ospedale, facendolo diventare la sua famiglia, al punto di sacrificare per esso anche il tempo libero e quello che avrebbe dovuto dedicare alla sua famiglia di origine. Io la incontrai per la prima volta nel 1986 quando presentai i documenti per un avviso per medico radiologo. Era già da parecchi anni la segretaria dell' allora primario, il prof. Chiappa, ma non solo. Regina è stata da subito una presenza forte e importante in radiologia e, col tempo, in ospedale, ma non solo. Sulla sua scrivania sono passati fiumi di referti radiologi ci da scrivere a macchina, prima e col computer poi" ma non solo. E' stata la segretaria dei primari della radiologia e dei medici del reparto per 36 anni, ma non solo. E' stata il punto di riferimento per tanti, malati, medici, infermieri, tecnici, dipendenti tutti, ogni qual volta si poneva un problema che aveva a che fare con la radiologia, ma non solo. Regina aveva “credito” dovunque chiamava, e lo ha fatto tante volte in tutti questi anni per aiutare che nel bisogno chiedeva il suo aiuto. Regina gioiva quando nasceva un bimbo a qualcuno che lavorava in ospedale, ha preparato bavagline, centrini, cuffiette, calzini, a uncinetto per tanti piccolini, come se fossero stati tutti suoi, ma sapeva essere vicino al dolore della morte, con la stessa sollecitudine: quanti mazzi di fiori, anonimi, nella camera mortuaria, davanti alla salma di tanti nostri cari defunti, avevano la sua celata firma: non voleva che si sapesse. E i compleanni e gli anniversari lieti, e le occasioni più diverse erano da lei colte per essere presente con un dono delicato, discreto, spesso frutto della fatica delle sue mani, della sua abilità di cuoca, specie per i dolci. E Regina era la nostra memoria storica perché non ci dimenticassimo di appuntamenti, impegni, doveri, scadenze. Alla fine era diventata una istituzione, un vero punto di riferimento, una sicurezza per molti. Persino nei mesi della malattia, quando era il giorno della chemioterapia la trovavi al bar dell' ospedale a comprare brioches per non presentarsi a mani vuote in oncologia dove la aspettavano per il trattamento. Ecco il perché di tante persone che hanno sostato davanti alla sua salma nei giorni successivi alla sua scomparsa, di tante che hanno affollato la chiesa per l'ultimo saluto, per l'ultimo, sincero, definitivo grazie: nessuno si è meravigliato dell'omaggio floreale personale della Direzione Generale e della Direzione Sanitaria “a Regina era dovuto” questo il semplice spontaneo commento.
Aveva da lavorare ancora per tre anni e poi avrebbe potuto godere della sua meritata pensione: ma la si poteva immaginare in pensione una come Lei? Al di fuori del suo Ospedale? Per questo credo, anche per questo, si è addormentata per sempre, in modo discreto, una mattina di marzo, in un lettino del suo ospedale, dopo aver ricevuto la visita della affezionata dottoressa Beatrice Tagliaferri, ultima tra noi a salutarla. Regina ci guarda coi suoi occhi grandi da una foto che la ricorda nella segreteria del servizio di radiologia. Per chi sa guardare oltre l'orizzonte del finito mondo, Regina ci aspetta nella luce senza tramonto dove ci ha preceduto e da dove continua a volerei tanto bene. Per molti è difficile al mattino transitare davanti alla porta spalancata del suo ufficio, senza volgere lo sguardo all'interno e senza pronunciare il saluto di sempre “ciao Regi”. Per molti sarà impossibile fare a meno del suo ricordo e delle parole che ripeteva spesso, di fronte alle avversità" coraggio ragazzi, ora tutto passa". Ciao Regi.

Maurizio Travani, caposala pediatria; + 17.6.2005
Maurizio, sarai sempre presente nella memoria di chi ti ha voluto bene, di chi ha percorso con te un tratto di questo passaggio sulla terra, imparando dalla tua dedizione al lavoro e dal tuo rigore a fare sempre il proprio dovere fino in fondo. I tuoi amici e colleghi della Pediatria.

 

 «Ho un fratellino;
lo ha fatto la Mamma;
talvolta strilla;
allora la Mamma pren­de il bimbo e lo allatta;
e la Mamma diventa più bella».
 

Il contadino vuole fermare la poesia di que­sto momento di incanto e corre a cercare un al­bero di ulivo che glielo consenta. Ma il lavoro dei campi si impone: non può essere dilazionato il raccolto, la famiglia accresciuta ha bisogno di tutto. Il contadino confida questo tormento al Parroco del paesino: e il Parroco risolve im­mediatamente il problema. Giorgio Piccini, il contadino che sente prepotente il bisogno di realizzare i suoi sogni in concrete sculture sul legno, viene sostituito nel lavoro della terra dallo stesso Parroco che per fortuna è forte come una quercia.  Il prete lavora, il contadino corre con la sgorbia in mano a ricercare il «suo» albero: lo trova e, tutto d’ un fiato, realizza la « Maternità» da regalare al figlio poeta. Ma in casa non v’ è un angolo libero che possa ospita­re la scultura eseguita all’ aperto, nel cortile: è soltanto per questo motivo che la scultura rag­giunge la sala di una mostra e da quel luogo è venuta da noi, per ritrovarsi in famiglia”. I. VANDELLI (primario dell’epoca)  

CRAPA, STRACCA E FRUSTA, LA SE GIUSTA
Giò Caprotti
Intanto: cosa vuol dire questa tipica frase milanese?  E’ sintomatica della piacevolezza e del benessere che si può trarre, dì quando in quando, da un po' di riposo.  Si perché staccando lo sguardo dal piano di lavoro, che sia la scrivania, il computer o un letto d'ospedale poco importa, e raddrizzando la schiena lasciando cadere, piano mi raccomando, le braccia ruotando appena le mani, come foglie al vento, “la testa, appesantita e un po' sciupata, si riassesta”.
E' il mio metodo per scrollarmi di dosso quella sensazione di malessere e stordimento che comunemente si definisce “stress” ma che io personalmente chiamo, in buon meneghino schietto, “strachezza” (magari accentando un po' troppo la “è” e sibilando un po’ le “zz”, quasi ad imitazione del trapano del dentista).  E' una cosa che mi ripeto spesso: ma perché usare tante parole straniere quando noi milanesi le abbiamo tutte e anche un po' di più?  Forse per essere moderni, come quelli che si infilzano le gemme nelle ali del naso, all'indiana.  Sì vede che quel metodo tiene lontano il raffreddore. 0 quelli che sì traforano labbra e sopracciglia, ma anche altri orli animali, con gli anellini.  Certo, come Masai sarebbero elegantissimi, ma qui fra noi mi sembrano dei “baluba” e basta.  E poi, scusatemi, ma allora che si mettano anche la sveglia al collo e l'osso di traverso allo “scignon” sulla sommità del capo. Al solito, per essere diversi dagli altri, si conciano tutti allo stesso modo.  Ma lo so che sono io ad essere arretrato: ma volete mettere come è bello succhiare una cozza con l'anello al labbro e in punta di lingua e un altro che pende dal naso?  Ma lo sapete voi che la birra bevuta cosi fa più schiuma? 0 ripassare la lingua sugli anelli dopo un buon boccone?  Si, è vero, poi è un po' più difficoltoso lavarsi i denti ma, scusatemi, nella giungla sì lavano i denti?
E non sono tutti concordi nel dire che la città è una giungla?  Comunque a me danno più noia le parole straniere che hanno usurpato lo spazio delle nostre.  I barbari, gli inventori del turismo dì massa, sono sempre discesi in Italia con gusto.  Ma io ci trovo più gusto non a dire “check-up” ma “controllada”!  E così perchè “day hospital” invece di dire “in postegg”)? (leggi “pusteeg”)?  E le “MST”, le “Malattie Sessualmente Trasmesse”, per noi già erano “MDC”, “Mal De Conseguenza”.
Ma per carità “overdose”, non era meglio “s’cioppettada”?  E l' “ecstasy” non è un “ciribira” o un “pirimpinpin”?
Ecco qualche altro parallelo: “pacemaker” = “ragionatt”; “input” = “sbutton”; “play boy” = “gingilla”; “moquette” = “soppedanì”; “piercing” = “sfìlzoeu”; “optional” = “caprizzi”; “murales” = “spegasc”; “internet” = “passaparola”; “karaoke” = “buseccada”; “hobby” = “la fissa”; “jeans” = “fusellaa”; “flop” = “bus in l'acqua”; “chef” = “brusapignatt”; “cardigan” = “gipponin”; “no profitt” = “amore Dei”; “staff” = “la cricca”; “rap” = “toratotela” ecc... così come “smog” = “sòffegh”; “full time” = “ora e strasora”; “sponsor” = “ruffian” ...

Ma adesso basta: “un po’ di relax” = “tirì el fiaa”!