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Comunicare
il Vangelo in
un mondo che cambia Orientamenti
pastorali dell’Episcopato italiano per
il primo decennio del 2000 29 giugno 2001 Solennità dei
santi apostoli Pietro e Paolo PRESENTAZIONE L’Assemblea
Generale dei Vescovi italiani ha approvato, nel maggio scorso, un documento che
offre alcuni orientamenti pastorali
per un fecondo cammino delle nostre comunità lungo il prossimo decennio. Il
tema di fondo è indicato già nel titolo: «Comunicare
il Vangelo in un mondo che cambia». Esso include la prospettiva della
missione e ne privilegia il compito. Invita per questo a dare uno sguardo
realistico al contesto nel quale siamo chiamati a offrire la nostra
testimonianza: si tratta infatti di scorgere l’«oggi di Dio» e le sue attese
su di noi. E infine solleva interrogativi e offre indicazioni circa la «conversione
pastorale» richiesta dalla chiamata a servire nel modo più adeguato
l’annuncio del Vangelo oggi. Questo
documento, mentre intende sostenere – e non certo sostituire – le
responsabilità pastorali a cui sono chiamate le singole Chiese particolari,
vuol essere una prima risposta all’invito rivolto a noi tutti da Giovanni
Paolo II nella lettera apostolica Novo
millennio ineunte. Il Papa ci sospinge ad affrontare il nuovo millennio con
piena fiducia nella presenza tra noi di Cristo risorto e con il coraggio che ci
è donato dall’azione decisiva dello Spirito Santo. Vogliamo
anche noi «andare al largo», salpare
senza paura, non temere la notte infruttuosa, riprendere con fiducia la pesca.
Vogliamo soprattutto dare gloria a Dio ed essergli profondamente grati.
Attraverso l’incarnazione di suo Figlio, egli ha infatti deposto nel grembo
della Chiesa il seme di una speranza che non delude. E così ci ha resi capaci
di ravvivare la speranza di ogni uomo. È ciò che, umilmente e senza
tentennamenti, vogliamo fare nel prossimo futuro. Ci
accompagni sempre, con la sua silenziosa testimonianza e il suo affetto materno,
Maria, Madre di Gesù e Madre nostra, “Stella dell’evangelizzazione”. Camillo
Card. Ruini Presidente
della Conferenza Episcopale Italiana Roma,
29 giugno 2001 Solennità
dei santi apostoli Pietro e Paolo Introduzione «Ciò che era fin da principio, ciò
che noi abbiamo udito… il Verbo della vita… Queste cose vi
scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta»
(1Gv 1,1.4) Al
servizio della gioia e della speranza di ogni uomo
1.
– Amatissimi fratelli e sorelle in Cristo, ci rivolgiamo a voi, all’inizio
di questo nuovo millennio, con sentimenti di lode
e di ringraziamento al Signore, perché
ha operato e continua a operare meraviglie in mezzo a noi: è il Signore
vivente, il Dio con noi, la nostra speranza. Ci rivolgiamo a voi anche con
sentimenti di profonda gratitudine per il cammino che, grazie a voi tutti, le
Chiese di Dio che sono in Italia hanno compiuto dal Concilio Vaticano II ad
oggi. Insieme a voi abbiamo cercato di condividere il peso delle tristezze e
delle angosce dei nostri contemporanei[1],
convinti che compito primario della Chiesa
sia testimoniare la gioia e la speranza
originate dalla fede nel Signore Gesù Cristo, vivendo nella compagnia degli
uomini, in piena solidarietà con loro, soprattutto con i più deboli. Come
pastori, vorremmo essere soprattutto i «collaboratori
della vostra gioia», senza «far da padroni sulla vostra fede» (2Cor
1,24). Non abbiamo la presunzione di credere di non avervi mai dato giusto
motivo di lamentarvi di noi nel nostro servizio episcopale[2];
perciò chiediamo perdono al Signore e a voi per tutte le mancanze a questo nostro
ministero, e desideriamo rinnovare il nostro impegno di confermarvi nella fede e
di alimentare in voi con tutte le nostre forze la gioia evangelica, per essere
insieme a voi portatori della gioia a ogni uomo. 2.
– A tutti vogliamo recare una parola di
speranza. Non è cosa facile, oggi, la speranza. Non ci aiuta il suo
progressivo ridimensionamento: è offuscato se non addirittura scomparso nella
nostra cultura l’orizzonte escatologico, l’idea che la storia abbia una
direzione, che sia incamminata verso una pienezza che va al di là di essa. Tale
eclissi si manifesta a volte negli stessi ambienti ecclesiali, se è vero che a
fatica si trovano le parole per parlare delle realtà ultime e della vita
eterna. C’è
poi la tentazione di dilatare il tempo presente, togliendo spazio e valore al
passato, alla tradizione e alla memoria.
A volte abbiamo paura di fermarci per ricordare, per ripensare a ciò che
abbiamo vissuto e ricevuto. Preferiamo fare molte cose, o cercare distrazioni.
Eppure sono l’ascolto, la memoria e il pensare a dischiudere il futuro, ad
aiutarci a vivere il presente non solo come tempo del soddisfacimento dei
bisogni, ma anche come luogo dell’attesa, del manifestarsi di desideri che ci
precedono e ci conducono oltre, legandoci agli altri uomini e rendendoci tutti
compagni nel meraviglioso e misterioso viaggio che è la vita. Vorremmo
perciò invitare con forza tutti i cristiani del nostro paese a riscoprire,
insieme a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, i fili invisibili della
vita, per cui nulla si perde nella storia e ogni cosa può essere riscattata e
acquisire un senso. Attingendo
alla Parola della vita 3.
– Ma dove potrà mai volgersi il nostro cuore per indicare prospettive reali e
concrete di speranza a ogni uomo? Dove potremo, noi pastori, attingere le forze
per vegliare su noi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito
Santo ci ha costituiti vescovi per pascere la Chiesa di Dio (cf. At 20,28), per
essere servitori della gioia? Non possiamo far altro che sentirci affidati, come
gli anziani di Efeso, «al Signore e alla parola della sua grazia che ha il
potere di edificare e di concedere l’eredità» (At 20,32), cioè il suo
regno, vero orizzonte di speranza. Risuonano
ai nostri orecchi le parole dell’apostolo Giovanni: «Ciò che era da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi
abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che
le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è
fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi
annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi),
quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche
voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio
suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta»
(1Gv 1,1-4). «Ciò
che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito…»: la fede nasce
dall’ascolto della
parola di Dio contenuta nelle Sante Scritture e nella Tradizione, trasmessa
soprattutto nella liturgia della Chiesa mediante la predicazione, operante nei
segni sacramentali come principio di vita nuova. Non ci stancheremo mai di
ribadire questa fonte da cui tutto scaturisce nelle nostre vite: «la parola di
Dio viva ed eterna» (1Pt 1,23). «…ossia
il Verbo della vita»: l’ascolto dei cristiani è rivolto soprattutto alla
Parola fatta carne, a colui che secondo l’evangelista Giovanni è la
narrazione, la spiegazione, cioè la rivelazione del Padre (cf. Gv 1,18). Tale
ascolto apre a una conoscenza
esperienziale e amorosa, capace di
incidere profondamente sulle nostre vite trasmettendoci la vita stessa di Dio:
«È apparsa la grazia di Dio», dice l’apostolo Paolo, «apportatrice di
salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna… a vivere… in questo mondo» (Tt
2,11-12). «Ciò
che noi abbiamo udito… lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in
comunione con noi… Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia [di
noi e di voi tutti] sia perfetta»:
grazie all’ascolto, all’esperienza e alla contemplazione del Verbo, i nostri
cuori si trasformano, sino a plasmare le nostre vite, sino a farle diventare a
loro volta capaci e desiderose di offrire e comunicare
la vita ricevuta. Nel cuore di chi ha
aderito al Signore Gesù Cristo, non può non nascere il desiderio di
condividere il dono ricevuto, di «amare come siamo stati amati». 4.
– L’itinerario dall’ascolto alla
condivisione per amore – tratteggiato nel prologo della prima lettera di
Giovanni e tipico della fede cristiana – è la via che Cristo ci ha indicato,
è ciò per cui è stato inviato dal Padre, è la ragione ultima per cui si è
fatto «obbediente fino alla morte, e alla morte di croce» (Fil 2,8). Ma un
tale itinerario è in realtà eloquente per ogni uomo, perché è una
via che conduce alla speranza e alla gioia. Permette, infatti, che gli uomini
possano trovare un senso nella tribolazione e nella sofferenza, confortandosi e
perdonandosi a vicenda, e rende loro possibile godere pienamente della gioia:
perché, altrimenti, l’uomo avrebbe l’irresistibile bisogno di far festa, se
non per quel «di più» di gioia che soltanto la condivisione può permettergli
di vivere? Per
questo, ci pare che compito
assolutamente primario per la Chiesa, in
un mondo che cambia e che cerca ragioni per gioire e sperare, sia e resti
sempre la comunicazione della fede,
della vita in Cristo sotto la guida dello Spirito, della perla preziosa del
Vangelo. Assumendo
il cammino percorso insieme dal Concilio a oggi
5.
– Guardando agli anni dal Concilio
– «la grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo XX»[3]
– fino a oggi, ci pare di poter dire che la
Chiesa italiana ha cercato di
interrogarsi in profondità, e l’ha fatto seguendo l’itinerario poc’anzi
ricordato, ossia il cammino della fede che nasce dall’ascolto e che attraverso
l’esperienza vissuta si fa testimonianza dell’amore di Dio e condivisione
con tutti gli uomini della speranza e della gioia cristiane. Nel
contempo si è sviluppato e ha preso corpo l’insegnamento
del Santo Padre Giovanni Paolo II,
che continuamente invita la Chiesa a riflettere sul mistero di Cristo, per
porsi, sotto la guida dello Spirito, al servizio della missione dell’Inviato
del Padre. Il successore di Pietro ha invitato in questi anni tutte le Chiese,
soprattutto quelle dei paesi occidentali, a ripartire da una profonda opera di
evangelizzazione e catechesi[4],
tesa a rendere sempre più salda la fede e l’esperienza spirituale dei
cristiani, al fine di renderli testimoni del Vangelo in un mondo che sta
attraversando profondi mutamenti culturali. 6.
– Negli ultimi anni, in particolare, ci siamo sentiti fortemente coinvolti
nell’itinerario di preparazione all’evento
giubilare. La lettera apostolica Tertio
millennio adveniente ci ha aiutati a riporre al centro Cristo, salvatore ed
evangelizzatore, invitandoci a un rinnovato studio del Vangelo, per approfondire
la figura di Gesù, la sua storia, fino a comprendere con sempre maggiore
profondità la sua vera identità[5].
Siamo stati quindi guidati a riscoprire la presenza e l’azione dello Spirito,
che costituisce il culmine del mistero dell’Incarnazione e che compagina i
cristiani nella Chiesa, rendendoli testimoni della speranza nell’avvento del
Regno[6].
Infine, nell’ultimo anno di preparazione al Giubileo, il nostro sguardo si è
rivolto al Padre, verso il quale tutti gli uomini – quale che sia la loro
razza, la loro cultura o la loro religione – sono incamminati e nel cui
abbraccio si incontreranno alla fine della storia[7]. La
chiamata alla conversione e l’eloquenza della santità
7.
– Occorre aggiungere che il Giubileo,
tempo di grazia e di misericordia, ci ha lasciato anche impressa nella
memoria la necessità di purificazione
che sempre permane nella Chiesa[8].
Come non pensare a immagini che hanno colpito il mondo intero, quali quella di
Giovanni Paolo II che abbraccia la croce invocando la misericordia del Signore,
o quella del Pontefice pellegrino al muro del tempio di Gerusalemme, per
chiedere perdono a Dio per le sofferenze che alcuni figli della Chiesa hanno
inflitto al popolo d’Israele? L’anno giubilare è stato così occasione per
riscoprire che la vita cristiana è sì tesa all’annuncio, alla condivisione
della Buona Notizia di Cristo, ma che ciò è possibile solo se la Chiesa per
prima si lascia purificare e santificare dall’amore misericordioso di Dio,
dall’ascolto della Parola della croce. Ogni cristiano, nel Giubileo, ha potuto
vivere un’esperienza forte della misericordia di Dio, riscoprendosi, con tanti
fratelli, popolo pellegrinante verso la sorgente del perdono e della
riconciliazione. La
risposta libera e responsabile a tale appello del Signore, con la conversione
e nella perseveranza fino al martirio, è e rimane il messaggio più forte e
convincente che la Chiesa può trasmettere nella storia. Non a caso, altro
momento fondamentale dell’anno giubilare è stata la celebrazione della
moltitudine di testimoni della fede,
la cui vita nel corso del XX secolo
è stata pienamente conformata a quella dell’Agnello. Ed è stato importante
accorgersi che i martiri hanno già saputo vivere quell’unità della Chiesa
che noi oggi purtroppo non sappiamo ancora realizzare, sebbene tale desiderio
abiti nel cuore del Signore che noi diciamo di amare (cf. 1Pt 1,8). «Circondati
da un così grande numero di testimoni» (Eb 12,1), ci sentiamo accompagnati e
incoraggiati in un cammino di costante e profonda conversione verso la gioia e
la speranza[9]. 8.
– Consapevoli del bisogno di senso dell’uomo d’oggi, teniamo «fisso
lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede» (Eb 12,2). Nel
contempo, vogliamo custodire nella memoria e nei cuori come un bene prezioso i
tesori di sapienza e i moniti accumulati negli oltre trent’anni trascorsi dal
grande evento del Concilio. Tutto questo ci fa avvertire l’urgenza di
rinnovare e approfondire la nostra collaborazione alla missione di Cristo. L’amore di Cristo ci
spinge ad annunciare la speranza a tutti i fratelli e le sorelle del nostro
paese: Cristo è risorto, la morte è vinta, e vi sono ancora migliaia di uomini
che accettano di morire per testimoniare la verità della risurrezione del
Signore. Ora sta a noi metterci al
servizio della missione dell’Inviato del Padre, assumendo la vocazione
battesimale alla santità. Ci potranno accompagnare ed essere di stimolo le
parole di John Henry Newman, che così amava rivolgersi in preghiera al Signore: «Stai
con me, e io inizierò a risplendere come tu risplendi; a risplendere fino ad essere
luce per gli altri. La luce, o Gesù, verrà tutta
da te: nulla sarà merito mio. Sarai tu a risplendere,
attraverso di me, sugli altri. Fa’ che io ti lodi così, nel
modo che tu più gradisci, risplendendo sopra tutti coloro
che sono intorno a me. Da’ luce a loro e da’ luce
a me; illumina loro insieme a me,
attraverso di me. Insegnami a diffondere la tua
lode, la tua verità, la tua volontà. Fa’ che io ti annunci non con
le parole ma con l’esempio, con quella forza attraente,
quella influenza solidale che proviene da ciò che faccio, con la mia visibile somiglianza
ai tuoi santi, e
con la chiara pienezza dell’amore che il mio cuore nutre per te.»[10]. 9.
– Gli orientamenti pastorali che
seguono scaturiscono da queste considerazioni introduttive e, nel medesimo
tempo, vogliono essere una risposta all’invito formulato da Giovanni Paolo II
a guardare avanti, a «prendere il largo», con un dinamismo nuovo e nuove
iniziative concrete[11].
Lo
stesso Santo Padre, nella lettera apostolica Novo millennio ineunte, invita esplicitamente le singole Chiese a
raccogliere le indicazioni pastorali che emergono dall’esperienza giubilare e
a incarnarle nella loro situazione culturale ed ecclesiale, avvalendosi anche
del lavoro collegiale svolto nelle Conferenze episcopali[12].
Abbiamo accolto tale invito e, senza fare un nostro diverso cammino, ci siamo
inseriti nel solco aperto dalla lettera apostolica di Giovanni Paolo II, per
meditarla, cogliervi le indicazioni più pertinenti per la situazione italiana e
favorire così, da parte di ciascuna diocesi, la formulazione dei veri e propri
itinerari pastorali. La
Novo millennio ineunte è da
considerarsi pertanto il testo di primario
riferimento di questi anni. Gli orientamenti pastorali che seguono ne sono una lettura e uno
sviluppo, per meglio accoglierlo e
attuarlo. Nella prima parte, stimolati dalla celebrazione del Giubileo,
concentreremo l’attenzione su Gesù Cristo, l’Inviato del Padre. Quindi,
partendo da alcuni elementi di analisi dell’ambiente culturale in cui viviamo,
offriremo indicazioni ecclesiologiche e pastorali per la comunicazione del lieto
annuncio cristiano, centrandole sul mistero dell’Incarnazione. Solo guardando
ad esso le nostre Chiese particolari potranno riprendere con rinnovato slancio
la propria missione evangelizzatrice, a servizio della missione di Cristo. Capitolo I Lo sguardo fisso su Gesù, «La vita
si è fatta visibile… la vita eterna, che era
presso il Padre e si è resa visibile a noi» (1Gv 1,2) 10.
– La Chiesa può affrontare il compito dell’evangelizzazione solo ponendosi,
anzitutto e sempre, di fronte a Gesù
Cristo, parola di Dio fatta carne. Egli è «la grande sorpresa di Dio»[13],
colui che è all’origine della nostra fede e che nella sua vita ci ha lasciato
un esempio, affinché camminassimo sulle sue tracce (cf. 1Pt 2,21). Solo il
continuo e rinnovato ascolto del Verbo
della vita, solo la contemplazione
costante del suo volto permetteranno ancora una volta alla Chiesa di comprendere
chi è il Dio vivo e vero, ma anche chi è l’uomo. Solo seguendo
l’itinerario della missione dell’Inviato – dal seno del Padre fino alla
glorificazione alla destra di Dio, passando per l’abbassamento e
l’umiliazione del Messia –, sarà possibile per la Chiesa assumere uno stile missionario conforme a quello del Servo, di cui essa stessa è
serva. La Chiesa, come ha detto il Concilio, «mira a questo solo: a continuare,
sotto la guida dello Spirito Paraclito, l’opera stessa di Cristo, il quale è
venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a
condannare, a servire e non ad essere servito»[14].
Questa è la missione della Chiesa nella storia e al cuore dell’umanità.
Perciò essa medita anzitutto e sempre «sul mistero di Cristo, fondamento
assoluto di ogni nostra azione pastorale»[15]. Il
primo passo per riprendere vigore e motivazioni autentiche nel servizio che ci
è stato affidato, consisterà quindi nel rivolgerci all’itinerario del Verbo della vita, in tutta la sua interezza: egli è colui che è uscito dal Padre ed
è venuto nel mondo (cf. Gv 16,28) per rivelarci il volto del Padre e donarci lo
Spirito Santo, perché potessimo partecipare alla vita divina. Ci soffermeremo
anzitutto a guardare Gesù l’Inviato del Padre, poi Gesù in mezzo a noi,
quindi Gesù il Risorto e infine Gesù che viene
già ora e poi nella gloria, nel suo Regno eterno. Si tratta di quattro momenti di un’unica e indissociabile missione che
dev’essere contemplata quale fonte ispiratrice della nostra pastorale. Gesù,
l’Inviato del Padre
11.
– «Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi
modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a
noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2). L’invio
del Figlio da parte del Padre avviene in
una storia, che ha inizio con la creazione
stessa dell’umanità. Non sorprenda se, parlando di Cristo, risaliamo fino
all’«in principio» (Gen 1,1). Lo ricorda san Paolo agli Efesini: «Dio,
Padre del Signore nostro Gesù Cristo,… in lui ci ha scelti prima della
creazione del mondo… predestinandoci a essere suoi figli adottivi» (Ef
1,3-5). Nel
libro della Genesi ci viene rivelato che Dio crea l’uomo a sua immagine e
somiglianza (cf. Gen 1,26-27), gli affida un creato frutto della sua parola
benedicente e lo pone in un giardino, spazio di bellezza che racchiude
l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male (cf. Gen
2,8-16). Il primo simboleggia la vocazione alla pienezza, alla comunione; il
secondo rappresenta la condizione fondamentale per godere pienamente del dono
della vita: saper discernere dietro al dono il Donatore, imparare che solo nel
riconoscimento del Creatore e di sé come creatura è possibile la comunione con
Dio, con l’altro, con la creazione. L’albero della conoscenza del bene e del
male raffigura il limite della creaturalità,
condizione indispensabile per un autentico esercizio
della libertà. Il
cammino dell’uomo è però tragicamente messo
in crisi dal peccato (cf. Gen 3), perché – come commenta sant’Ireneo
– «l’uomo era bambino, e il suo senso del discernimento non era ancora
sviluppato. Così venne facilmente ingannato dal seduttore»[16].
È il dramma della storia, in cui la libertà ha saputo a volte declinarsi come
amore, ma spesso anche come negazione dell’altro e di Dio. E tale duplice
possibilità attraversa la vita di ciascuno di noi: nessuno è senza peccato, e
tuttavia nessuno di noi è totalmente estraneo all’esperienza del vero amore. 12.
– L’Antico Testamento narra i ripetuti tentativi di Dio per ricondurre la
creazione al fine per cui l’ha creata: essere spazio di vita e di bellezza.
Ma, per attuare questo disegno, Dio si serve sempre della libertà dell’uomo. Con ogni essere umano che viene al mondo è
immesso un potenziale di novità nella storia[17],
nel bene come nel male. L’uomo è creatura
responsabile, capace con la sua libertà di dare inizio a nuove vie,
di vita o di morte. Così,
Dio fa un’alleanza con Noè, quindi
con Abramo, e poi ancora con Mosè. Attraverso tali proposte, Dio chiama gli
uomini a riscoprire la loro dignità di figli e la loro vocazione alla santità
mediante l’ascolto della sua parola. Alle alleanze si aggiungono le incessanti
esortazioni alla conversione che Dio
fa al suo popolo Israele per mezzo dei profeti. Così si legge, ad esempio, nel
profeta Geremia: «Io inviai a voi tutti i miei servitori, i profeti, con
premura e sempre; eppure essi non li ascoltarono e non prestarono orecchio…
Questo è il popolo che non ascolta la voce del Signore suo Dio né accetta la
correzione» (Ger 7,25.28). I
profeti mettono in guardia anche gli uomini più «religiosi»; il rischio
maggiore è stato ed è quello di cadere nell’equivoco di compiere atti
di culto al Signore senza che sia
coinvolto il cuore, senza permettere al Signore di entrare veramente nella
nostra vita e senza compiere poi il cammino imprevedibile a cui egli chiama (cf.
Os 6,6; Am 5,21; Is 1,12-17; Ger 7,1-15). Il salmista riconosce: «Sacrificio e
offerta non gradisci, gli orecchi mi hai aperto. Non hai chiesto olocausto e
vittima per colpa. Allora ho detto: “Ecco, io vengo”. Sul rotolo del libro
di me è scritto, che io faccia il tuo volere. Mio Dio, questo io desidero, la
tua legge è nel profondo del mio cuore» (Sal 40,7-9). E la volontà del
Signore è la pace, la giustizia, il bene, è soprattutto l’amore per i più
piccoli e indifesi; la sua volontà è che gli uomini vivano una vita piena, cioè
buona, bella e beata. Ma
è l’incarnazione del Verbo
l’evento che rende visibile, tangibile e sperimentabile, da parte degli
uomini, l’intenzione eterna di Dio. Egli non parla più attraverso
intermediari. La sua Parola si fa carne, nascendo dalla Vergine Maria, e
nell’umanità che assume diventa completamente solidale con noi. Tutta la
storia era orientata a questo evento. L’apostolo Paolo esprime costantemente
questa intenzione: il nostro riferimento a Cristo non è qualcosa di secondario,
né tanto meno di casuale. A questa relazione noi siamo preordinati da sempre:
costituisce la nostra vocazione a quella pienezza di vita che è stata pensata
da Dio per noi sin dal principio e che ci sarà data nel Regno, quando tutte le
realtà saranno ricapitolate in Cristo (cf.
Ef 1,10)[18].
13.
– La storia della salvezza non è segnata solo dalle ripetute chiamate di Dio,
ma anche dai ripetuti rifiuti da parte
dell’uomo di accogliere la via della vita. Lo stesso Verbo di Dio, ci
ricorda l’evangelista Giovanni, «venne fra la sua gente, ma i suoi non
l’hanno accolto» (Gv 1,11). Gesù, nel Vangelo di Giovanni, indica la radice
profonda del rifiuto, dell’incredulità, e lo fa servendosi di un linguaggio
duro, che richiede di essere decifrato: «Io dico quello che ho visto presso il
Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro!… Chi
è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché non
siete da Dio» (Gv 8,38.47). La radice
della fede biblica sta nell’ascolto,
attività vitale, ma anche esigente. Perché ascoltare significa lasciarsi
trasformare, a poco a poco, fino a essere condotti su strade spesso diverse da
quelle che avremmo potuto immaginare chiudendoci in noi stessi. Le vie che Gesù
indica sono segnate dalla bellezza, perché bella è la vita di comunione, bello
lo scambio dei doni e della misericordia; ma sono vie impegnative. Di qui la
tentazione di non aprirgli la porta, di lasciarlo fuori dalla nostra esistenza
reale. La storia del peccato, infatti,
è sempre radicata nella storia del non
ascolto. Anche se – va detto con forza – nessuno di noi può giudicare
l’ascolto degli altri, neppure di coloro che si dichiarano lontani dalla fede.
14.
– Colui che è stato inviato per manifestarci in pienezza l’intenzione del
Padre, nel farsi vicino a noi segue l’unica traiettoria capace di fare breccia
nella nostra sordità, di parlare realmente al nostro cuore: la via della kènosis,
dell’abbassamento, dell’umiliazione. L’umiltà
è il tratto più caratteristico dell’amore di Dio rivelato dall’Inviato del
Padre. Scrive san Tommaso, riprendendo sant’Agostino: «Una così grande umiltà
di Dio [manifestatasi nell’Incarnazione, cioè nell’invio del Figlio] è in
grado di rimproverare e di guarire la superbia dell’uomo»[19].
La
discesa, l’umiliazione del Verbo
ci è spiegata da una pagina preziosa della lettera ai Filippesi, che non a caso
la liturgia della Chiesa ripropone in occasione delle maggiori feste
cristologiche: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù,
il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua
uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e
divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,5-8). In
Cristo, Dio si è comunicato e si comunica mediante una profonda condivisione
dell’esperienza umana. Egli non ha rifuggito l’opacità della
storia, ma l’ha assunta per redimerla. Il Verbo, condividendo la condizione
umana, l’ha illuminata rivelando le profondità di Dio. Lui che da sempre era
presso Dio, per rivelare Dio si è posto accanto all’uomo. Anzi, si può dire
di più: ha mostrato il volto di Dio attraverso il dono di sé sino alla morte,
e alla morte in croce. La croce è
diventata la suprema cattedra per la rivelazione
della sua nascosta e imprevedibile identità: il
volto dell’amore che si dona e che salva l’uomo condividendone in tutto
la condizione, «escluso il peccato» (Eb 4,15). La Chiesa non lo dovrà mai
dimenticare: sarà questa la sua strada a servizio dell’amore e della
rivelazione di Dio agli uomini. 15.
– In tal modo l’abbassamento divino, manifestato dall’Inviato del Padre,
diviene rivelazione di ciò che regge
l’universo: l’amore di Dio, un amore tale da prevedere e superare anche
l’infedeltà dell’uomo, il cattivo uso che questi avrebbe fatto del dono
della libertà; in una parola, il peccato. L’Apocalisse di Giovanni,
spingendosi fino alle profondità ultime del mistero dell’Inviato del Padre,
arriva a riconoscere in lui l’Agnello immolato «fin dalla fondazione del
mondo» (Ap 13,8), Colui dalle cui piaghe siamo stati guariti (cf. 1Pt 2,25; Is
53,5). Gesù in
mezzo a noi
16.
– La missione dell’Inviato del Padre diventa
visibile e udibile soprattutto dal giorno in cui Gesù dà inizio all’annuncio
del regno di Dio e lo manifesta in mezzo a Israele. Essa trova il suo vertice
nei giorni in cui, affrontando la passione e la croce, Gesù svela pienamente il
volto del Padre con il dono totale di sé e opera la nostra redenzione.
Tuttavia, non è soltanto la vita pubblica di Gesù a esprimerne la missione, ma
è tutta la parabola della sua esistenza. È
significativo il gesto che Giovanni Paolo II ha voluto compiere durante il
Giubileo: uno speciale pellegrinaggio lungo la storia, «sostando in alcuni dei
luoghi che sono particolarmente legati all’Incarnazione del Verbo di Dio»[20].
Così facendo, il Papa ha dato evidenza a una regola fondamentale per la Chiesa:
tornare sempre alle proprie origini, ricavare linfa dalle proprie radici, ridare
evidenza all’essenziale. Tutto ciò che Gesù ha vissuto nella sua carne è
per noi un’occasione fondamentale di insegnamento, poiché «Cristo svela
pienamente l’uomo all’uomo»[21]. 17.
– Gesù ha conosciuto come ogni uomo le tappe
della crescita fisica,
psicologica, spirituale. Emblematiche, al riguardo, sono le parole
dell’evangelista Luca, che descrivono la vita di Gesù a Nazaret con i suoi genitori e la partecipazione alla vita
religiosa del suo popolo (cf. Lc 2). Ciò significa che anch’egli, come ogni
uomo, ha dovuto accettare la famiglia in cui è nato, il contesto culturale in
cui è cresciuto, nonché le potenzialità e i limiti della propria corporeità.
Sono queste le condizioni umanissime per crescere in età e sapienza. Ma, come
ogni figlio di Israele, egli ha altresì letto e ascoltato le parole del Dio dei
padri, cogliendovi la propria storia e quella del suo popolo. Lo vediamo
pertanto frequentare le sinagoghe e il tempio, per pregare e per ascoltare e
interrogare i maestri del suo tempo. Luca riassume, in forma assai breve ma
efficace: «Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli
uomini» (Lc 2,52). 18.
– I Vangeli narrano poi il suo battesimo
(cf. Mt 3,13-17), evento denso di significati. Recandosi dal Battista, Gesù
mostra – come farà per tutta la vita – il proprio grande amore per i peccatori, facendosi solidale con loro; ma, soprattutto,
egli riceve la testimonianza dall’alto
di essere il Figlio, l’Amato, colui nel quale il Padre ha posto ogni
compiacimento. L’esperienza del battesimo segna una svolta decisiva nella vita
di Gesù: lascia la casa e si prepara
a svolgere un ministero pubblico, ad
assumere fino in fondo la propria missione di Inviato del Padre,
predicando l’avvento del regno di Dio. 19.
– A questo punto, i Vangeli sinottici narrano di un tempo vissuto da Gesù nel
deserto, a lottare contro Satana, armato soltanto delle Scritture e della
consapevolezza di essere amato dal Padre (cf. Mt 4,1-11). Egli ripercorre l’esperienza
della tentazione, come Adamo nel
giardino dell’Eden, come Israele nel deserto e come ciascuno di noi nella vita
quotidiana, uscendone però vincitore:
è lui il nuovo Adamo, l’uomo che ha saputo crescere nella propria libertà
fino a essere capofila di una nuova umanità,
condotta, al suo seguito, dal deserto del peccato alla terra promessa del Regno.
Ascoltare la Parola di Dio e lottare contro le tentazioni, contro i «pensieri
malvagi» (Mc 7,21) che allontanano dalla via della vita: è il cammino
necessario a ogni cristiano per imparare a usare la propria libertà amando Dio
e i fratelli. 20.
– Gesù inizia ad annunciare ciò
che in lui si è compiuto: l’instaurarsi della
regalità di Dio, della sua volontà che rende pienamente uomini (cf. Mc
1,14-15). Il «Figlio dell’uomo» invita a seguire il suo cammino, che è
quello del Regno, «e ne illustra le esigenze e la potenza attraverso parole e
segni di grazia e misericordia»[22].
Dalla Galilea, in cui è cresciuto, risuona così il Vangelo, la buona notizia per i poveri, i prigionieri, gli
oppressi: Gesù proclama e inaugura l’anno di grazia del Signore (cf. Lc
4,14-21), annuncia che saranno i piccoli e gli umili a «regnare» (cf. Mt
5,3-12). L’opera
di evangelizzazione da parte di Gesù è così riassunta nella predicazione di
Pietro: «Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale
passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del
diavolo, perché Dio era con lui» (At 10,38). Gesù è passato facendo il bene: ha condotto una vita buona, nel senso che ha
aiutato gli altri a far emergere il potenziale di bene e di vita che li abitava,
liberandoli dal potere del demonio e risanandoli dalle contraddizioni di cui
erano prigionieri. Egli è stato anche un ascoltatore attento del suo
tempo, capace di valorizzare tutto il bene disseminato in Israele e nella
cultura del suo popolo. 21.
– Ma in che cosa consiste la via verso
il Regno che Cristo illustra? Essa è fatta di ascolto della volontà del Padre, di pratica della misericordia
e della giustizia, di servizio umile e amoroso per i fratelli; tutto per poter giungere a
condividere con ogni essere umano il banchetto escatologico, segno di quella comunione
che è la vita stessa di Dio. A
questa missione Gesù associa i Dodici
e li rende partecipi del suo annuncio e della sua autorità sulle forze del
male (cf. Mc 3,13-15). Egli li istruisce, li chiama a stare con lui, a imparare
dalla sua umiltà e mitezza (cf. Mt 11,29). È
molto significativo anche il linguaggio
scelto da Gesù per fare entrare i suoi interlocutori nella comprensione del
Regno. Egli parla in parabole, ricorre
cioè all’esperienza di ogni figlio del suo popolo: nelle parabole e nelle
similitudini impiegate da Gesù troviamo allusioni alla vita di ogni giorno. In
tal modo si svela una profonda capacità di trarre lezione e consolazione da
ogni creatura e da ogni evento. Gesù sa discernere e far comprendere la
bellezza della vita attraverso i simboli che si celano dietro alle esperienze
umanissime della vita quotidiana. E fare appello all’esperienza significa
coinvolgere la libertà di colui che ascolta. Sì,
la sua è stata una vita bella,
vissuta in pienezza: è stato un uomo sapiente, capace di vivere tutti i
registri delle relazioni umane, compreso quello dell’amicizia; le pagine evangeliche sulla «casa di Betania» sono tra
le più affascinanti di tutta la Scrittura (cf. Lc 10,38-42; Gv 11,1-44;
12,1-8). Se non comprendiamo come tutta l’esistenza di Gesù sia stata
manifestazione di una vita vissuta nell’amore di Dio e degli uomini e nella
libertà integrale, rischiamo di fraintendere anche l’esito drammatico della
sua storia. 22.
– Tutti i Vangeli concordano nel narrare una crescente tensione nei confronti di Gesù. Egli ne porta il peso
sempre più da solo, fino all’abbandono da parte di tutti (cf. Mc 14,50) di
fronte alla sua fine «ingloriosa». Sulla croce,
come un «maledetto da Dio» (cf. Gal 3,13), egli non ha più attorno a sé
alcun segno tangibile dell’amore del Padre, neppure la voce dall’alto che
aveva dato inizio alla sua missione al Giordano e che lo aveva confermato
nell’ora della Trasfigurazione (cf. Mt 3,17; 17,5). Anche quegli evangelisti
che ricordano la presenza sotto la croce di persone a lui care, ce le presentano
mute: solo Gesù parla e conforta. Egli aveva instancabilmente insegnato che la
via verso la pienezza della vita consiste nel sacrificare la propria vita
liberamente e per amore: ora,
nonostante l’estrema solitudine, rimane totalmente
fedele alla missione ricevuta, amando sino alla fine, continuando a
perdonare anche dalla croce (cf. Lc 23,34)[23]. È
importante, però, sottolineare che Gesù si mostra capace di giungere a questa
estrema libertà perché ha coltivato una vita interiore, un dialogo con il Padre. I Vangeli ci dicono come egli amasse
ritirarsi in preghiera prima di iniziare le sue giornate, soprattutto nelle ore
più decisive della sua vita: prima di iniziare il suo ministero pubblico, di
fronte alla crescente popolarità in Galilea e ancora quando ormai si profila
evidente l’ostilità che porterà al «fallimento» umano della sua missione.
Come non ricordare, poi, la preghiera al Padre nel Getsemani, prima dell’ora
decisiva della sua morte in croce? Per quanto immerso nella paura e
nell’angoscia, egli si rivolge a Dio con la tenerezza e la fiducia del Figlio
amato: «Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice!
Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36). 23.
– L’intima relazione con il Padre fa sì che Gesù sappia amare i suoi «sino alla fine»
(Gv 13,1). E non solo i suoi: tutti gli evangelisti ci raccontano i gesti di
amore, le parole che egli rivolge a tutti coloro che gli sono accanto e a tutti
coloro che incontra, fino alla morte. Alla luce dei suoi gesti e delle sue
parole, rivolti soprattutto ai peccatori che rappresentano un po’ tutta
l’umanità, è possibile leggere la croce
stessa come una parola d’amore di
Dio in Gesù, come l’estremo appello della misericordia divina affinché ci
convertiamo alla volontà del Padre. Anche
il pensiero di Gesù, nei giorni della sua passione, rivolto al futuro
della sua comunità e del suo messaggio è il frutto dell’amore «sino
alla fine». Nel Vangelo di Giovanni, questa sollecitudine ci è narrata nelle
figure di Maria e del discepolo amato, affidati da Gesù l’uno all’altra,
affinché prosegua e si realizzi nella storia la vocazione filiale di ogni uomo
(cf. Gv 19,25-27). Ma, ancor più chiaramente, tale compito di trasmissione del
Vangelo del Regno è affidato da Gesù ai suoi discepoli nell’ultima
cena consumata con loro, quando egli consegna loro un memoriale, un racconto
e dei gesti capaci di trasmettere il senso della sua vita e della sua morte per
ogni uomo. Nell’istituzione dell’Eucaristia, egli spiega e rende presente la
Nuova Alleanza che sta per siglare con il suo sangue: non più i sacrifici di un
tempo, bensì il totale dono di sé, il totale affidamento alla volontà del
Padre, l’amore «sino alla fine», sul suo esempio. Commenterà san Paolo: il
«culto spirituale» dei cristiani consiste nell’offrire a Dio tutta la vita (cf.
Rm 12,1-3), per farne una narrazione dell’amore di Dio per gli uomini. Gesù, il Risorto
24.
– Se il racconto terminasse qui, non sarebbe sufficiente a suscitare e
sostenere la nostra fede. Il Messia che annunciava l’imminenza del regno di
Dio è morto come un maledetto, appeso al legno della croce. I discepoli si
smarriscono, hanno paura (cf. Gv 20,19); alcuni, come i due di Emmaus, lasciano
Gerusalemme (cf. Lc 24,13). Il pastore è stato colpito e le pecore sono
disperse. Gesù stesso l’aveva annunciato: «Voi tutti vi scandalizzerete per
causa mia in questa notte Qui
interviene invece un’esperienza decisiva per la comprensione del significato
della morte di Gesù, per l’origine della Chiesa, per il raduno dei figli di
Dio in Cristo e per l’annuncio della parola definitiva di Dio sulla storia: la
Risurrezione. È la Risurrezione il fondamento
della nostra fede e della nostra speranza,
come ricorda l’apostolo Paolo: «Se Cristo non è risorto, è vana la vostra
fede» (1Cor 15,14). La Risurrezione è infatti la conferma
che, davanti agli uomini, Dio dà alla missione portata a compimento dal Figlio;
è l’elevazione del Messia
crocifisso a Signore del cosmo e della storia, la sua esaltazione a redentore e
giudice dell’umanità intera. Così canta l’inno della lettera ai Filippesi,
dopo aver sottolineato l’abbassamento di Cristo Gesù fino alla morte di
croce: «Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra
di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei
cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il
Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2,9-11). La Chiesa, professando la
risurrezione di Gesù e la sua ascensione alla destra del Padre, riconosce che l’umanità intera è ormai con
Cristo in Dio (cf. Col 3,1-4). Infatti Dio «nella sua grande misericordia
ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una
speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non
marcisce» (1Pt 1,3-4). 25.
– La Risurrezione è altresì accompagnata dall’effusione dello Spirito Santo, che rende possibile anche a noi di
seguire l’itinerario di abbassamento e di innalzamento del Figlio: è
l’evento che ci dischiude la possibilità di diventare «partecipi della
natura divina» (2 Pt 1,4), di essere figli
nel Figlio. La
nostra speranza si fonda unicamente sul fatto che la via tracciata da Gesù
di Nazaret è quella che conduce anche noi alla vita piena ed eterna: «Dio, che
ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza» (1Cor
6,14). Noi possiamo comprendere, di giorno in giorno, che vivendo cristianamente
si fa il bene – lo si fa emergere nella storia –, che la vita cristiana è
bella, degna di essere vissuta; possiamo anche sperimentare umanamente che vale
la pena di vivere offrendo la vita per amore. Ma, senza l’intervento divino
che risuscita il Figlio, senza l’azione potente dello Spirito, l’orizzonte
della nostra speranza si farebbe labile e nell’ora della prova e della
debolezza non potremmo far altro che venire meno. Grande «prova» della
risurrezione del Signore è proprio l’immensa schiera di uomini e donne che
hanno trovato la forza per rimanere fedeli
al Vangelo fino alla morte. Mostrando che c’è una ragione per cui vale la
pena di dare la vita – cioè l’amore di Dio e dei fratelli –, essi hanno
svelato di essere abitati da una ragione per cui valeva la pena di vivere: hanno
trovato il senso della vita, della storia, del mondo, riconoscendo, con
l’apostolo Paolo, che la potenza di Dio si manifesta nella debolezza (cf. 2Cor
12,9) e che la nostra fede non è fondata sulla sapienza umana ma sulla potenza
di Dio (cf. 1Cor 2,3-5). Le
apparizioni del Risorto riguardarono solo la prima generazione di testimoni;
anche a noi tuttavia, come a loro, è possibile fare un’esperienza della Risurrezione, anzitutto nell’adesione alla
testimonianza apostolica e poi nel dono vicendevole dell’amore e del perdono:
è in vista di questi doni, infatti, che è stato effuso dal Risorto lo Spirito
sulla Chiesa, come testimoniano i racconti evangelici delle apparizioni (cf. Gv
20,19-23). Dono della comunione, testimonianza sino alla fine, remissione dei
peccati: sono i segni grandi della presenza dello Spirito del Risorto nella
storia. 26.
– La Risurrezione fa della storia umana lo spazio
dell’incontro possibile con la grazia di Dio, con quell’amore gratuito
che fin dall’inizio ha creato l’uomo per vivere in comunione con lui e
donargli la vita eterna. Questo è il progetto di Dio, questa la sua volontà,
per tutti! Ed è bene che torniamo a insistere, nella predicazione e in altre
forme di comunicazione, sul fondamento e sul significato di questa speranza per
la vita dei cristiani e degli uomini tutti. Dio
ci ha fatti venire all’esistenza con la sua parola, ci ha pensati e amati da
sempre e chiama ciascuno per nome. Qui sta la ragione profonda della nostra vita
sulla terra e qui sta il fondamento della nostra speranza in una vita oltre la
morte: Dio ci ama «di amore eterno»
(Ger 31,3). Va aggiunto che la vita eterna
non scaturisce dall’esistenza isolata e autosufficiente dell’uomo, né dalla
sua propria forza, ma unicamente dalla vita di relazione con il suo Creatore: tale relazione è costitutiva
del suo essere più profondo. Dio stesso non è solitudine, ma relazione sussistente: «Dio è amore» (1Gv 4,8).
Ma relazione, amore, significano vita: Dio ha fatto esistere l’uomo per
renderlo partecipe della sua stessa vita. 27.
– Attraverso Gesù Cristo, suo inviato nel mondo, il Padre ha manifestato
definitivamente il suo desiderio di una
vita piena ed eterna per gli uomini
e ha attuato tale disegno nella storia (cf. Ef 3,11). Ancora una volta ritornano
alla mente le parole della prima lettera di Giovanni che abbiamo scelto come
icona biblica per questi nostri orientamenti: noi annunciamo il Verbo della vita
che abbiamo udito e contemplato, «poiché la vita si è fatta visibile, noi
l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita
eterna, che era presso il Padre e che si è resa visibile a noi» (1Gv 1,2). Con
la sua vita Gesù ci ha mostrato come vivere e come morire, con la sua
risurrezione ci ha svelato qual è il cammino nel quale la parola del Padre
introduce colui che lo ascolta ed entra pienamente in relazione con lui. Il
primo passo per aprirci al dono della
vita è aprire l’orecchio del nostro
cuore alla parola di Dio, è affidarci
ad essa, lasciando che la nostra assiduità con Gesù Cristo e con il suo
Vangelo illumini e sostenga ogni istante delle nostre esistenze. Gesù è
l’Inviato del Padre che ci chiama alla pienezza della vita: è aderendo a lui
– questo significa «credere» – che anche noi potremo partecipare
pienamente al dialogo che non ha fine tra il Figlio e il Padre, imparando a dire
in verità: «Abbà, Padre!». 28.
– Gesù ci ha insegnato a dire «Abbà», a pregare il Padre nel segreto (cf.
Mt 6,6). Ci ha consegnato anche una preghiera che noi tutti recitiamo ogni
giorno e che inizia con le parole «Padre nostro»: essere
in Cristo significa riconoscere l’unica fonte della vita, il Padre di
tutti, e significa riconoscere il
Corpo di Cristo che è la Chiesa. Non potrebbe essere altrimenti: se la vita
che Dio ci ha dato trova un senso e una pienezza nella relazione, se Gesù
Cristo l’ha manifestata agli uomini attraverso relazioni concrete d’amore
per i fratelli e le sorelle con cui è vissuto, anche noi possiamo pregustare la
vita eterna soltanto attraverso i tangibili e quotidiani rapporti di amore che
riusciamo a intessere con tutti gli altri figli dell’unico Padre. Ogni forma
di amore – il perdono, il dono di sé, la condivisione, e mille altre ancora
– è il luogo in cui trapela per ognuno di noi qualche raggio dell’eternità.
Perché la vita eterna è l’amore (cf. 1Cor 13,8; 1Gv 3,14). Chi
è assiduo nell’ascolto del Signore e si apre all’ascolto dei fratelli,
diventerà capace a poco a poco di vincere
la paura della morte. Solo i profondi rapporti d’amore con Dio e con chi
ci è accanto, infatti, sanno indicarci con forza un «al di là», una verità
verso la quale siamo incamminati e che sta sotto il segno dell’eternità.
Allora anche il lento declino del nostro corpo potrà lasciar spazio ad altre
certezze interiori, come ricorda san Paolo: «Se anche il nostro uomo esteriore
si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno» (2Cor 4,16). Questo
è l’annuncio cristiano sulla vita
eterna: esso si fonda sulla Risurrezione di Cristo, ma già fin d’ora
ognuno di noi può intuire e pregustare la vita eterna nella Chiesa, nella communio sanctorum, così come in ogni relazione umana segretamente
trasfigurata dall’amore di Dio, in ogni esperienza di perdono accolto e
donato. Testimoniando e predicando tutto questo, noi svolgiamo il nostro
servizio alla missione di Cristo. Gesù,
colui che viene 29. – Noi viviamo tra il giorno della risurrezione
di Cristo e quello della sua venuta.
Egli è colui che verrà alla fine dei tempi, per portare a compimento in tutto
il creato la volontà del Padre. Per questo il cristianesimo vive nell’attesa,
nella costante tensione verso il compimento; e dove tale attesa viene meno c’è
da chiedersi quanto la fede sia viva, la carità possibile, la speranza fondata. Gesù
è colui che è venuto, viene e verrà. È venuto nell’Incarnazione, verrà
nella gloria e nel frattempo non ci lascia soli: egli continua a venire a noi
nei doni del suo Spirito, nella predicazione della parola di verità, nella
liturgia e nei sacramenti, nella comunione attorno ai pastori nella Chiesa,
nell’esperienza della sua misericordia che a ciascuno è possibile fare, per
grazia, nell’intimo della coscienza. San Bernardo di Chiaravalle parla, con
termini assai indovinati, di un medius
adventus[24], di un dolce e misterioso
venire a noi già oggi del Verbo, che ci visita per confortarci e darci forza
nel cammino della vita. Così dice la liturgia: «Ora egli viene incontro a noi
in ogni uomo e in ogni tempo, perché lo accogliamo nella fede e testimoniamo
nell’amore la beata speranza del suo regno»[25]. Dire
che Gesù è colui che viene, significa rimandare soprattutto, come ricorda il
Credo, al giorno in cui egli «verrà nella
gloria a giudicare i vivi e i morti».
Dio, infatti, ha l’iniziativa: egli chiama all’esistenza, ama di amore
preveniente, elargisce con totale gratuità i suoi doni agli uomini. L’uomo,
tuttavia, resta libero di accogliere o di rifiutare il dono della figliolanza
divina in Cristo. È qui che si radica il tema del giudizio, così difficile
oggi da esprimere senza dar luogo a malintesi, eppure così urgente. Si tratta,
infatti, di una realtà presente nelle Scritture e nelle parole stesse di Gesù:
la Chiesa non può dimenticarla, né può smettere di annunciarla per
conformarsi alle attese mondane. Ma come parlare oggi del giudizio di cui Gesù
è portatore? Come proclamare oggi le verità circa la vita eterna in modo che
suscitino un profondo interesse negli uomini alla ricerca di «che cosa
sperare» e siano capaci di scuotere le coscienze e di provocare conversione? Anzitutto,
dobbiamo osservare come la morte sia
per ciascun uomo il momento della verità,
della caduta delle maschere. Ciò che noi siamo realmente si esprime nello
spazio tra l’inizio e la fine della nostra vita terrena. In termini umani, in
questo svelamento finale, che ci rende responsabili di quanto abbiamo espresso
nell’arco dell’unica vita a noi data, consiste il giudizio per ognuno di
noi. In
questo spazio che è l’esistenza terrena, Dio parla all’uomo, gli indica in
mille modi la via che porta alla vita. Come ricorda il Concilio: «La vocazione
ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina, perciò
dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a
contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale»[26]. Ma
il giudizio non è solo un fatto personale: esso è anche la risposta di Dio alle domande di giustizia degli uomini. Alla fine
dei tempi si rivelerà la giustizia e la verità del Signore e troveranno
risposta i tanti perché, le tante sofferenze patite ingiustamente dagli uomini.
Il regno di Dio è compimento della giustizia vera per tutti coloro che nel
mondo hanno subìto afflizione e hanno atteso l’epifania del Signore; è
incontro e riconciliazione tra ogni essere umano, e tra gli uomini e il Padre
che è nei cieli.
30. – Gesù ha annunciato in vari modi il
giudizio e la vita eterna. Lo ha fatto con parole di rivelazione e di
esortazione, nei discorsi escatologici dei Vangeli sinottici, e ponendo la carità
come criterio del giudizio con cui, al suo ritorno glorioso, chiederà conto a
ognuno dell’uso fatto del dono della vita (cf. Mt 25,31-46). Come ha ammonito
san Giovanni della Croce, «alla sera
della vita, saremo giudicati sull’amore»[27].
Ma
proprio perché il fine ultimo delle nostre vite è l’amore e la comunione,
non possiamo, in una visione veramente conforme al Vangelo, restare indifferenti
nel vedere altri che rifiutano l’accesso al regno della vita, siano pure
nostri nemici o persecutori. Gesù non è venuto a condannare, ma a salvare: «Se
qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno; perché non
sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» (Gv 12,47). Gesù,
nella sua vita, non ha condannato nessuno, ma ha mostrato in ogni recesso della
nostra tenebra vie di luce, in ogni luogo della nostra disobbedienza la strada
dell’adesione alla volontà del Padre. Le sue ultime parole dalla croce sono
state di perdono verso i suoi persecutori. La croce stessa è stata lo svelamento di una verità che è misericordia,
che apre alla speranza invitando l’uomo fino all’ultimo istante alla
conversione. La croce è lo svelamento di un Dio che ha voluto condividere le
nostre sofferenze facendosi solidale fin dove ha potuto con noi peccatori, cioè
portando il suo amore al cuore della nostra stessa inimicizia. Dice san Paolo:
«Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora
peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8). Si ricordino le parole di un
Padre della Chiesa: «Il più grande peccato è non credere nelle energie della
Risurrezione»[28],
ovvero disperare della misericordia divina. 31.
– Contemplando le realtà ultime nelle Scritture e soprattutto nelle parole di
Gesù, la Chiesa ha sempre riconosciuto che Dio rispetta a tal punto l’uomo
da lasciarlo libero di accogliere o non accogliere la grazia. Per questo, la
Chiesa ritiene che sia possibile sottrarsi allo spazio della figliolanza divina,
operando in tal modo da se stessi un giudizio sulla propria vita. Inoltre,
la tradizione cattolica sottolinea come lo svelamento della nostra verità alla
fine della vita comporti l’esigenza di
una purificazione per poter
accedere al banchetto del Regno, alla comunione con tutta l’umanità radunata
attorno all’Agnello. Perché solo ciò che è stato in noi sotto il segno
dell’amore non avrà mai fine, come ricorda l’apostolo Paolo, mentre ciò
che è imperfetto è destinato a scomparire (cf. 1Cor 13,8-10). Davanti a Dio
proveremo disgusto di noi stessi (cf. Ez 20,43) e il suo amore misericordioso
compirà in ciascuno di noi la necessaria purificazione affinché possiamo
entrare a far parte della Gerusalemme celeste. Infine,
il tema del giudizio è stato assunto con profonda serietà a partire dal
pressante invito di Gesù alla vigilanza:
«Vegliate!» (Mc 13,37). Ogni uomo è chiamato a prestare attenzione in ogni
momento al rivelarsi gratuito di Dio, della sua misericordia che purifica e
risana; è chiamato a scorgere la presenza della grazia divina attraverso
persone ed eventi. Solo custodendo il timore di non riconoscere Colui che passa
tra noi e rimane con noi[29],
potremo realmente vivere una vita degna dell’eternità. L’unico
timore che si addice a un cristiano maturo è quello di ferire l’amore con cui
Dio continuamente vuole beneficarci[30],
non il timore di un castigo. Soltanto così l’annuncio del giudizio può
essere «Vangelo», buona notizia, appello alla conversione, parola che
dischiude un orizzonte di vita e di speranza, che non chiude le porte, ma le
apre. La Chiesa non deve mai dimenticare di essere chiamata a un ministero di misericordia. A ciascuno di noi spetta, poi, la scelta
di entrare o di rimanere fuori, usufruendo di quella libertà che Dio ha dato
all’uomo e che Cristo non ha mai contraddetto, preferendo piuttosto la via
della croce. È la sua grande debolezza, ma anche la sua più grande forza: «Quando
sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). L’uomo ha la
possibilità di rifiutare Dio e il suo amore, ma le braccia di Gesù restano sempre
spalancate, pronte ad accogliere chi si lascia attrarre da lui. Capitolo II La Chiesa a servizio «La vita… noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza»
(1Gv 1,2) Per una missione
senza confini
32.
– Comunicare il Vangelo è il compito
fondamentale della Chiesa. Questo si attua, in primo luogo, facendo il
possibile perché attraverso la preghiera liturgica la parola del Signore
contenuta nelle Scritture si faccia evento, risuoni nella storia, susciti la trasformazione
del cuore dei credenti. Ma ciò non basta. Il Vangelo è il più grande dono
di cui dispongano i cristiani. Perciò essi devono condividerlo con tutti gli uomini e le donne che sono alla ricerca di ragioni per vivere, di una pienezza della
vita[31].
L’Eucaristia,
fonte e culmine della vita di fede, ci ricorda come la Nuova Alleanza che in
essa si celebra è principio di novità e di comunione per il mondo intero: Dio
continua a radunare intorno a sé un
popolo da un confine all’altro della terra[32].
La missione ad gentes non è soltanto
il punto conclusivo dell’impegno pastorale, ma il suo costante orizzonte e il
suo paradigma per eccellenza. Proprio la dedizione a questo compito ci chiede di
essere disposti anche a operare cambiamenti, qualora siano necessari, nella
pastorale e nelle forme di evangelizzazione, ad assumere nuove iniziative, «fiduciosi
nella parola di Cristo: Duc in altum!»[33]. 33.
– Lo Spirito Santo opera
liberamente, a somiglianza del vento che soffia dove vuole (cf. Gv 3,8) e, al di
là delle opache testimonianze che sappiamo dare, la nostra speranza si fonda
soprattutto sulla fiducia che è Dio stesso a condurre in modo misterioso i fili
invisibili della storia. Ma questo non può affatto deresponsabilizzarci: lo
Spirito Santo opera normalmente nel mondo attraverso la nostra cooperazione. Per
questo i credenti sono chiamati a vegliare in ogni momento, a custodire la
grazia della loro vocazione, a collaborare alla gioia e alla speranza del mondo
condividendo la perla preziosa del Vangelo. Ha detto il Signore Gesù: «Voi
siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si
potrà rendere salato?» (Mt 5,13). La
presenza certa dello Spirito, semmai, è lì a ricordarci costantemente come
soltanto lasciandoci conformare a Cristo, fino ad assumere il suo stesso sentire
(cf. Fil 2,5), potremo predicare Gesù Cristo e non noi stessi.
L’evangelizzazione può avvenire solo seguendo
lo stile del Signore Gesù, il «primo e più grande evangelizzatore»[34].
Con questo spirito, dopo aver contemplato il Verbo della vita, intendiamo in
questo capitolo dei nostri orientamenti suggerire alcune linee di fondo sulla
missione della Chiesa, intesa in senso ampio come comunicazione del Vangelo nel mondo odierno. 34.
– Partiremo dunque interrogandoci sull’oggi
di Dio, sulle opportunità e sui problemi posti alla missione della Chiesa
dal tempo in cui viviamo e dai mutamenti che lo caratterizzano, per passare poi
a mettere a fuoco alcuni compiti e priorità
pastorali che ci pare di intravedere per i prossimi anni. Vi è però
un’ulteriore e importante premessa da fare. Se vogliamo adottare un criterio
opportuno dal quale lasciarci guidare per compiere un discernimento evangelico,
dovremo coltivare due attenzioni tra loro
complementari anche se, a prima vista, contrapposte. Di entrambe ci è
testimone lo stesso Gesù Cristo. La
prima consiste nello sforzo di metterci in
ascolto della cultura del nostro
mondo, per discernere i semi del Verbo già presenti in essa, anche al
di là dei confini visibili della Chiesa. Ascoltare le attese più intime dei
nostri contemporanei, prenderne sul serio desideri e ricerche, cercare di capire
che cosa fa ardere i loro cuori e cosa invece suscita in loro paura e
diffidenza, è importante per poterci fare servi della loro gioia e della loro
speranza. Non possiamo affatto escludere, inoltre, che i non credenti abbiano
qualcosa da insegnarci riguardo alla comprensione della vita e che dunque, per
vie inattese, il Signore possa in certi momenti farci sentire la sua voce
attraverso di loro. L’animo giusto ci pare essere quello che, come scrive san
Luca, l’apostolo Paolo assume dinanzi agli ateniesi riuniti nell’areopago
della città (cf. At 17,22-31): vi è un Dio ignoto che abita nei cuori degli
uomini e che è da essi cercato; allo svelamento del volto di Dio noi possiamo
contribuire, per grazia, nella consapevolezza che in quest’opera di annuncio
noi stessi approfondiamo la sua conoscenza. 35.
– L’attenzione a ciò che emerge nella ricerca dell’uomo non significa
rinuncia alla differenza cristiana, alla trascendenza
del Vangelo, per acquiescenza alle attese più immediate di un’epoca o di
una cultura. Come ricorda san Paolo ai cristiani della Galazia: «Vi dichiaro,
fratelli, che il Vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo; infatti
io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù
Cristo» (Gal 1,11-12). Vi è una novità irriducibile
del messaggio cristiano: pur additando un cammino di piena umanizzazione,
esso non si limita a proporre un mero umanesimo. Gesù Cristo è venuto a
renderci partecipi della vita divina, di quella che felicemente è stata
chiamata «l’umanità di Dio». Il Signore ci ha fatti annunciatori della sua
vita rivelata agli uomini e non possiamo misurare con criteri mondani
l’annuncio che siamo chiamati a fare. In certi momenti il Vangelo è duro,
impopolare, perché duri sono i cuori degli uomini – i nostri, a volte, più
di quelli degli altri –, bisognosi di essere ricondotti sulla via della vita
per aprirsi al dono di una nuova e più piena umanità. Questa
duplice attenzione costituisce la paradossalità
dell’esperienza cristiana, di cui
parla uno scritto del secondo secolo: i cristiani sono uomini come tutti gli
altri, pienamente partecipi della vita nella città e nella società, dei
successi e dei fallimenti sperimentati dagli uomini; ma sono anche ascoltatori
della Parola, chiamati a trasmettere la differenza evangelica nella storia, a
dare un’anima al mondo, perché l’umanità tutta possa incamminarsi verso
quel Regno per il quale è stata creata[35]. Discernere
l’oggi di Dio
36.
– Ma quali sono le potenzialità e gli
ostacoli che si incontrano oggi nelle nostre comunità e nel nostro paese
per quanto riguarda la diffusione
della Buona Notizia cristiana?
Offriamo qui alcune linee di riflessione, ricordando però che con quanto segue
non intendiamo descrivere la mentalità dell’uomo moderno o delineare un
profilo dei non credenti, quasi fossero un mondo a parte rispetto ai credenti.
La mentalità del mondo in cui viviamo può permeare anche noi cristiani e
l’incredulità è tentazione che attraversa anche il nostro cuore: prendere
coscienza dei suoi tratti essenziali è fondamentale per discernere potenzialità
e rischi presenti anche nella nostra esistenza. 37.
– Una prima opportunità che ci pare di poter riconoscere, almeno in qualche
misura, in molte persone è il desiderio
di autenticità. I giovani, in particolare, sono disposti a investire con
generosità energie, ove sentano che davvero quanto stanno facendo ha un senso.
Certo, il puro desiderio di autenticità non basta: va integrato con il
riconoscimento dell’autenticità degli altri, dell’autenticità della
storia, del valore di tutto ciò che, in poche parole, è esterno alla nostra
coscienza e alle nostre sensazioni emotive. La ricerca dell’autenticità, se
non è integrata da altri fattori, può portare a esiti individualistici, in
casi estremi anche violenti. Ma solo riconoscendo questa esigenza
come un valore, sarà possibile dare risposte vere e profonde alla
ricerca di significato che abita le nostre vite.
Vi sono poi altre potenzialità: sono da
discernere là dove emerge il desiderio di
«prossimità», di socialità, di incontro, di solidarietà e di ricerca
della pace. È il segno che l’autenticità a cui mira l’uomo moderno non si
orienta soltanto verso la ricerca di emozioni immediate e a basso prezzo, che
essa non è di per sé inesorabilmente destinata all’individualismo: gli occhi
dei nostri contemporanei continuano a dischiudersi sull’altro, specie su chi
è sofferente e bisognoso, e questo è un motivo di speranza. Anche in questa
prospettiva non mancano ovviamente ambiguità, specialmente quando il desiderio
dell’incontro con l’altro si traduce in passivo adeguamento alla
massificazione, o quando la scoperta della ricchezza dell’incontro tra culture
diverse scade a indifferentismo verso la verità. I grandi movimenti migratori
accentuano la condizione di multiculturalità, nel duplice versante di risorsa e
problema. Questi
fermenti possono essere estremamente fecondi se si saprà coniugare ricerca
dell’autenticità e accettazione dell’alterità. Si cresce realmente in
umanità – in età, sapienza e grazia… – soltanto se, oltre a prestare
ascolto ai nostri desideri, sappiamo riconoscere di essere preceduti
da una storia, da tradizioni e culture che veicolano un senso che va al di là
di noi. Alla spontaneità va aggiunta la capacità di perseverare nelle
inevitabili oscurità della vita, all’espressione
della libertà non può mancare il riconoscimento
della verità, dello spessore della realtà che ci circonda, nonché della
verità ultima che costituisce anche l’orizzonte verso cui siamo tutti
incamminati. Gesù ha promesso ai credenti in lui: «Conoscerete la verità e la
verità vi farà liberi» (Gv 8,32). Nessuno può pretendere di disporre
totalmente della verità che sempre ci precede; solo cercandola, e cercandola
insieme, tutti i nostri desideri potranno trovare un senso, già anticipato ora
nell’evento della riconciliazione e della comunione tra gli uomini: quaerere
veritatem in dulcedine societatis è il metodo della grande tradizione
cattolica. E resta per i credenti la serena certezza di avere già incontrato
questa verità nella persona di Gesù: il suo volto risplende già nei
nostri cuori e alla nostra mente, anche se la ricerca del suo mistero è senza
fine. 38.
– Per questo guardiamo con interesse alla rinnovata
ricerca di senso che sta, almeno un poco, riavvicinando molti uomini e donne
del nostro paese all’esperienza religiosa e in particolare a Gesù Cristo.
Dopo stagioni di forte contrapposizione tra credenti e non credenti, emerge un
rinnovato desiderio di incontro, che non va tradito. Ci pare di cogliere in
questo qualcosa di più importante e di meno ambiguo rispetto a un vago «risveglio
religioso»: oggi è infatti rintracciabile un anelito alla trascendenza. Anche
lo sviluppo della scienza e della tecnica
presenta aspetti positivi da cogliere e valorizzare. L’uomo che si spinge
avanti nelle vie del sapere scientifico si trova di fronte a domande non di tipo
tecnico, e tuttavia ineludibili, che riguardano il fondamento e il senso
dell’esistenza. Si aprono frontiere nuove, legate in particolare a un rapporto
inedito dell’uomo con il corpo, oscuro ancora però negli esiti: prevale
infatti la tendenza a percepire e vivere il corpo come luogo di desiderio e
soddisfazione e come oggetto di sperimentazione e manipolazione. Il superamento
del dualismo, della contrapposizione tra mentale e corporeo, come pure il
miglioramento delle condizioni materiali di vita possono tuttavia far crescere
verso una più compiuta sintesi dell’esperienza personale, al cui centro di
colloca la dimensione spirituale. Nella stessa letteratura e nelle arti
figurative sembrano emergere segni di un superamento di quella crisi nel
rapporto con il reale che a lungo le aveva caratterizzate e si intravedono nuove
possibilità e rinnovato interesse per un incontro con l’esperienza religiosa.
Prendiamo
atto con gioia anche dell’accresciuta
sensibilità ai temi della salvaguardia del creato, che indicano come gli
uomini e le donne del nostro tempo se ne
sentano in qualche misura corresponsabili. Sarà importante, in avvenire,
accogliere maggiormente questa sensibilità, approfondendo la riflessione sui
corretti fondamenti del rapporto tra uomo e natura e cooperando con quanti sono
sinceramente preoccupati e impegnati per il futuro della terra. Come
cristiani siamo condotti a interrogarci sul contributo che possiamo dare alla comprensione
del cosmo, della vita, dell’uomo. 39.
– Un campo in cui stanno emergendo grandi potenzialità è anche quello della comunicazione
sociale. Nuove opportunità di conoscenza, scambio e partecipazione
accompagnano le innovazioni tecnologiche in questo ambito. Ci troviamo di fronte
a una nuova cultura che «nasce, prima
ancora che dai contenuti, dal fatto stesso che esistono nuovi modi di
comunicare, con nuovi linguaggi, nuove tecniche, nuovi atteggiamenti psicologici»[36].
La possibilità di comunicare in modo nuovo e
diffuso è un bene di tutta l’umanità
e come tale va promosso e tutelato. Quanto più potenti sono i mezzi di
comunicazione tanto più deve essere forte la coscienza etica di chi in essi
opera e di chi ne fruisce. È necessario pertanto che la comunicazione sociale
non sia considerata solo in termini economici o di potere, ma resti e si
sviluppi nel quadro dei beni di primaria importanza per il futuro dell’umanità. La comunione ecclesiale e la missione
evangelizzatrice della Chiesa trovano inoltre nei media un campo privilegiato di
espressione. Dal Concilio ad oggi la Chiesa ha preso ancor più coscienza di
quanto sia importante coniugare tutti gli
ambiti della vita ecclesiale con questa nuova realtà culturale e sociale.
Le iniziative avviate in questi anni dalla Chiesa in Italia per raccordare e
promuovere la comunicazione in campo ecclesiale e per rendere più incisiva la
presenza della Chiesa nei media dovranno trovare in questo decennio
un’ulteriore realizzazione nel quadro di un’organica pastorale delle
comunicazioni sociali e nella prospettiva del progetto culturale. Qui si colloca
anche l’impegno di promuovere il ruolo e la formazione di tutti i
comunicatori, ovunque essi operino. 40.
– Ma accanto alle potenzialità a cui abbiamo fatto cenno, non si possono
tacere i rischi e i problemi che
riscontriamo oggi nel nostro paese riguardo al compito della trasmissione della
fede. In
primo luogo, dobbiamo prendere atto che le persone
che si dicono «senza religione» sono
in aumento; vi sono poi persone disposte a riconoscere un certo riferimento a
Cristo, ma non alla Chiesa; non mancano neppure le conversioni dal cristianesimo
ad altre religioni. Ciò che tuttavia è più preoccupante è il crescente analfabetismo
religioso delle giovani generazioni, per tanti versi ben disposte e
generose, ma spesso non adeguatamente formate all’essenziale dell’esperienza
cristiana e ancor meno a una fede capace di farsi cultura e di avere un impatto
sulla storia. È
poi indubbio che, nella mentalità
comune e di conseguenza nella
legislazione, si diffondono su diversi
argomenti prese di posizione lontane dal
Vangelo e in netto contrasto con la tradizione cristiana. Questo sia
riguardo alla maniera di intendere questioni assai delicate come i problemi del
rapporto tra lo Stato e le formazioni sociali – in primo luogo la famiglia
–, dell’economia e delle migrazioni dei popoli, sia in merito alla visione
della sessualità, della procreazione, della vita, della morte e della facoltà
di intervento dell’uomo sull’uomo. Oggi più che mai su questi temi è
richiesta a ogni cristiano un’autentica vigilanza profetica: la sua
testimonianza e il suo annuncio devono essere conformi al Vangelo. 41.
– Non si può poi tacere sul fatto che è avvenuta alla fine del secondo
millennio cristiano una vera e propria eclissi
del senso morale. Con questo non vogliamo né possiamo dire che la gente sia
più cattiva di un tempo: piuttosto, è diventato difficile perfino parlare
dell’idea del bene, come di quella del male, senza suscitare non tanto
reazioni, quanto molto più semplicemente una forte incomprensione. Gli uomini e
le donne del nostro tempo hanno indubbiamente dei valori di riferimento – chi
potrebbe vivere senza affidarsi a qualcosa o a qualcuno? –, ma spesso trovano
difficile o poco interessante dar ragione di ciò che guida le loro scelte di
vita, rischiando così di esporsi fortemente all’arbitrarietà delle emozioni
o – fatto molto più insidioso – ai miti occulti che permeano la nostra
società su diversi temi morali non periferici. Più
radicalmente, la caduta delle ideologie totalizzanti e delle grandi utopie di
liberazione storica – insieme con le cause più antiche che già da molto
tempo sospingono verso un agnosticismo razionalista e talvolta verso un vero e
proprio nichilismo – ha lasciato spazio a forme di relativismo, di indifferenza
diffusa per le domande più radicali, senso del provvisorio, frammentazione del
sapere e delle esperienze. Oggi assistiamo poi a un vero e proprio smarrimento,
nel contesto di una società multimediale che
tende a stordire con il vorticoso susseguirsi di immagini e informazioni, mentre
rischia di perdersi il valore della lettura e dell’ascolto. Avvertiamo da
tempo l’importanza di un’educazione all’uso dei mezzi di comunicazione
sociale e nei prossimi anni l’attenzione formativa al riguardo dovrà essere
rafforzata. Senza uno sguardo contemplativo diventa difficile interiorizzare gli
eventi, la storia in cui viviamo, fino a discernervi un senso e a farla nostra.
Oggi aumentano le informazioni e le conoscenze, ma con esse non aumentano
affatto automaticamente l’unità della persona e la sapienza della vita, anzi,
si manifesta sempre di più il rischio della
scissione interiore tra razionalità, dimensione affettivo-emotiva e vita
spirituale. 42.
– Un altro fenomeno legato al precedente, che desta interrogativi, è la
scarsa trasmissione della memoria storica. È urgente assumersi la
responsabilità di trasmettere pazientemente il senso di ciò che ci ha
preceduti, delle tradizioni e delle vicende senza le quali noi non saremmo ciò
che siamo oggi; non per irrigidirci o ripiegarci sul passato, bensì per
trasmetterne lo spirito, pur nel necessario mutare delle forme. In questo senso
noi cristiani dovremmo insistere perché l’Italia sappia valorizzare e
trasmettere anche la sua tradizione religiosa:
il patrimonio cristiano è anche un patrimonio storico, culturale, artistico
comune a credenti e a non credenti, e nessuno può saggiamente guardare avanti
senza confrontarsi seriamente con il proprio passato. Senza
questo allargamento dello sguardo fino ad abbracciare la dimensione storica
delle nostre esistenze personali e comunitarie, non saremo capaci di far fronte
alle sfide della globalizzazione, la
quale amplia sì gli orizzonti spaziali delle nostre vite, creando grandi e
sempre nuove opportunità, ma in realtà restringe quelli temporali,
appiattendoci sul presente e chiedendoci nel contempo una capacità di risposta
e una velocità di adeguamento ai cambiamenti tutt’altro che facili da
conseguire. Se non si attuerà ciò che è in nostro potere per rimuovere
l’attuale appiattimento sul presente,
non sarà certo facile combattere gli esiti individualistici della cultura in
cui viviamo. 43.
– Infine, noi cristiani, insieme a tutti gli uomini che vivono accanto a noi,
dobbiamo sempre essere pronti a discernere ogni
forma di idolatria, ogni costruzione della mente umana che sia portatrice di
morte e non di vita. Ebbene, nella nostra società sono presenti dei «miti»
che vanno smascherati. Il cristianesimo non può accettare ad esempio la
logica del più forte, l’idea che la presenza di poveri, sfruttati e umiliati
sia frutto dell’inesorabile fluire della storia: Gesù ha annunciato che
saranno proprio i poveri a regnare, a precederci nel regno dei cieli. Sono essi
i nostri «signori»[37].
Su questo punto il cristianesimo non può scendere affatto a compromessi: il
povero, il viandante, lo straniero non sono cittadini qualunque per la Chiesa,
proprio perché essa è mossa verso di loro dalla carità di Cristo e non da
altre ragioni. Quali compiti per
il prossimo decennio?
44.
– Se comunicare il Vangelo è e resta il compito primario della Chiesa,
guardando al prossimo decennio, alla luce del contesto socio-culturale di cui
abbiamo offerto qualche lineamento, intravediamo alcune
decisioni di fondo capaci di qualificare il nostro cammino ecclesiale. In
particolare: dare a tutta la vita quotidiana della Chiesa, anche attraverso
mutamenti nella pastorale, una chiara connotazione
missionaria; fondare tale scelta
su un forte impegno in ordine alla qualità
formativa, in senso spirituale, teologico, culturale, umano[38];
favorire, in definitiva, una più adeguata ed efficace comunicazione agli uomini, in mezzo ai quali viviamo, del
mistero del Dio vivente e vero, fonte
di gioia e di speranza per l’umanità intera. Le
proposte pastorali dei Vescovi
italiani, nel corso degli ultimi
trent’anni, hanno rimarcato con
vigore la centralità dell’educazione alla fede e della sua comunicazione. A
partire dal Concilio, alcune scelte significative sono state compiute ad esempio
con il progetto catechistico e l’impegno per il rinnovamento liturgico, quindi
con la sottolineatura della comunità quale soggetto dell’evangelizzazione e,
infine, evidenziando il segno della carità come qualificante la missione
cristiana. Non possiamo però ritenerci soddisfatti. Dobbiamo chiederci: la
comunicazione delle proposte che abbiamo formulato, anche attraverso convegni e
documenti, è stata comprensibile per la gente e ha saputo toccare il suo cuore?
Coloro che sono gli strumenti vivi e vitali della traduzione degli orientamenti
pastorali – sacerdoti, religiosi, operatori pastorali – si sono coinvolti in
maniera corresponsabile e intelligente nel cammino delle loro Chiese locali? E i
singoli credenti stanno affrontando il loro cammino cristiano non
individualisticamente, bensì nel contesto della comunità dei discepoli di
Cristo, che è la Chiesa? E noi Vescovi abbiamo saputo dare gli impulsi
necessari perché i nostri stessi orientamenti pastorali non restassero lettera
morta? 45.
– Negli ultimi decenni e anche recentemente non sono mancati, nella vita della
Chiesa, cristiani – vorremmo dire «profeti» – dallo sguardo penetrante, i
quali hanno intuito e intravisto la necessità di
esperienze di vita, personali e comunitarie, fortemente
ancorate al Vangelo per dare un avvenire alla trasmissione della fede in un
mondo in forte cambiamento. Abbiamo bisogno di cristiani con una fede adulta,
costantemente impegnati nella conversione, infiammati dalla chiamata alla santità,
capaci di testimoniare con assoluta dedizione, con piena adesione e con grande
umiltà e mitezza il Vangelo. Ma ciò è possibile soltanto se nella Chiesa
rimarrà assolutamente centrale la docile
accoglienza dello Spirito, da cui deriva la forza capace di plasmare i cuori
e di far sì che le comunità divengano segni eloquenti a motivo della loro vita «diversa». Ciò non significa credersi migliori, né comporta
l’esigenza di separarsi dagli altri uomini, ma vuol dire prendere sul serio il
Vangelo, lasciando che sia esso a portarci dove noi forse non sapremmo neppure
immaginare e a costituirci testimoni. 46.
– Per dare concretezza alle decisioni che
abbiamo indicato – e che, ne siamo consapevoli, richiedono «una
conversione pastorale»[39]
–, per imprimere un dinamismo missionario, vogliamo delineare i due
livelli specifici, ai quali ci pare si debba rivolgere l’attenzione nelle
nostre comunità locali. Parleremo anzitutto di quella che potremmo chiamare «comunità
eucaristica», cioè coloro che si riuniscono con assiduità nella
eucaristia domenicale, e in particolare
quanti collaborano regolarmente alla vita delle nostre parrocchie; passeremo
quindi ad affrontare la vasta realtà di coloro che, pur essendo battezzati, hanno un rapporto con la comunità ecclesiale che si
limita a qualche incontro più o meno sporadico, in occasioni particolari della
vita, o rischiano di dimenticare il
loro battesimo e vivono nell’indifferenza religiosa. Se
questi due livelli saranno assunti seriamente e responsabilmente, saremo aiutati
ad allargare il nostro sguardo a quanti hanno aderito ad altre religioni e ai
non battezzati presenti nelle nostre terre. Anche la vera e propria missione
ad gentes, già indicata come paradigma dell’evangelizzazione[40],
riprenderà vigore e il suo significato diventerà pienamente intelligibile
nelle nostre comunità ecclesiali. Una Chiesa che dalla contemplazione del Verbo
della vita si apre al desiderio di condividere e comunicare la sua gioia, non
leggerà più l’impegno dell’evangelizzazione
del mondo come riservato agli «specialisti», quali potrebbero essere
considerati i missionari, ma lo sentirà come proprio di
tutta la comunità. D’altro canto, l’allargamento dello sguardo verso un
orizzonte planetario, compiuto riaprendo il «libro delle missioni»[41],
aiuterà le nostre comunità a non chiudersi nel «qui e ora» della loro
situazione peculiare e consentirà loro di attingere risorse di speranza e
intuizione apostoliche nuove guardando a realtà spesso più povere
materialmente, ma nient’affatto tali a livello spirituale e pastorale. Il giorno
del Signore e la parrocchia, tempo e spazio per una comunità realmente
eucaristica
47.
– Giovanni Paolo II ci ricorda che «la nostra testimonianza sarebbe
insopportabilmente povera se noi per primi non fossimo contemplatori del volto
di Cristo… E la contemplazione del volto di Cristo non può che ispirarsi a
quanto di lui ci dice la Sacra Scrittura, che è, da capo a fondo, attraversata
dal suo mistero»[42]. La parola di Dio, che è
capace di farci apostoli, ci chiede anzitutto di essere
discepoli. I cristiani maturi dovrebbero essere dei «rigenerati non da un
seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna» (1Pt
1,23). Così nasce la Chiesa e così vive e si espande. Va dunque attentamente
meditato il fatto che essa è chiamata a essere il luogo nel quale si riuniscono
coloro che anzitutto vengono evangelizzati.
Sarebbe assurdo pretendere di evangelizzare, se per primi non si desiderasse
costantemente di essere evangelizzati.
Dovremmo nutrirci della parola di Dio «bramandola», come il bambino cerca il
latte di sua madre (cf. 1Pt 2,2): per la vitalità della Chiesa, questa è
un’esperienza essenziale. Perché
la parola e l’opera di Dio e la risposta dell’uomo si tramandino lungo la
storia, è assolutamente indispensabile che vi siano tempi e spazi precisi nella nostra vita dedicati all’incontro
con il Signore. Dall’ascolto e dal dono di grazia nasce la conversione e
l’intera nostra esistenza può divenire testimonianza del lieto annuncio che
abbiamo accolto. Ci sembra pertanto fondamentale ribadire che la comunità
cristiana potrà essere una comunità di servi del Signore soltanto se custodirà
la centralità della
domenica, «giorno fatto dal Signore» (Sal 118,24), «Pasqua settimanale»,
con al centro la celebrazione dell’Eucaristia, e se custodirà nel contempo la
parrocchia quale luogo – anche fisico – a cui la comunità
stessa fa costante riferimento. Ci sembra molto fecondo recuperare la centralità
della parrocchia e rileggere la sua funzione storica concreta a partire
dall’Eucaristia, fonte e manifestazione del raduno dei figli di Dio e vero
antidoto alla loro dispersione nel pellegrinaggio verso il Regno[43]. 48.
– Nonostante la diminuzione dei praticanti avvenuta negli ultimi decenni, per
la comunicazione del Vangelo è e rimane essenziale la comunità di coloro che
con regolarità si riuniscono per fare memoria del Signore e celebrare
l’Alleanza nel suo corpo e nel suo sangue. Nel
giorno del Signore, come ha ricordato
Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Dies
Domini, noi facciamo memoria della parola di Dio che ci ha creati, del Verbo
fatto carne, morto e risorto per la nostra salvezza, dell’effusione dello
Spirito sulla Chiesa. Ma ricordiamo anche che la vita umana acquista senso
quando vi sono tempi e spazi di riposo e di gratuità, destinati alla relazione
tra gli esseri umani. In tal modo, facendo memoria di Colui che ci ha preceduti,
possiamo riconoscere il destino a cui siamo orientati insieme a tutti i fratelli
e le sorelle a fianco dei quali viviamo[44]. Se
un anello fondamentale per la comunicazione del vangelo è la comunità fedele
al «giorno del Signore», la celebrazione
eucaristica domenicale, al cui centro sta Cristo che è morto per tutti ed
è diventato il Signore di tutta l’umanità, dovrà essere condotta a far
crescere i fedeli, mediante l’ascolto della Parola e la comunione al corpo di
Cristo, così che possano poi uscire dalle mura della chiesa con un animo
apostolico, aperto alla condivisione e pronto a rendere ragione della speranza
che abita i credenti (cf. 1Pt 3,15). In tal modo la celebrazione eucaristica
risulterà luogo veramente significativo dell’educazione
missionaria della comunità cristiana. In
questo contesto ricordiamo anche l’importanza che nella vita cristiana ha
avuto ed ha ancora per molti fedeli la
partecipazione quotidiana alla celebrazione eucaristica e il culto
eucaristico – in particolare, l’adorazione eucaristica –, che danno
continuità al cammino di crescita spirituale. 49.
– Assolutamente centrale sarà approfondire il senso della festa e della liturgia, della celebrazione comunitaria
attorno alla mensa della Parola e dell’Eucaristia, del cammino di fede
costituito dall’anno liturgico. La
Chiesa deve sempre ricordare l’antico adagio, secondo cui è la lex
orandi a stabilire la lex credendi[45]:
la fonte della nostra fede è la preghiera comune della Chiesa. Nonostante
i tantissimi benefici apportati dalla riforma liturgica del Concilio Vaticano II,
spesso uno dei problemi più difficili oggi è proprio la trasmissione del vero
senso della liturgia cristiana. Si constata qua e là una certa stanchezza e
anche la tentazione di tornare a vecchi formalismi o di avventurarsi
alla ricerca ingenua dello spettacolare. Pare, talvolta, che l’evento
sacramentale non venga colto. Di qui l’urgenza di esplicitare la rilevanza
della liturgia quale
luogo educativo e rivelativo, facendone emergere la dignità e
l’orientamento verso l’edificazione del Regno. La celebrazione eucaristica
chiede molto al sacerdote che presiede l’assemblea e va sostenuta con una
robusta formazione liturgica dei fedeli. Serve una liturgia insieme seria,
semplice e bella, che sia veicolo del mistero, rimanendo al tempo stesso
intelligibile, capace di narrare la perenne alleanza di Dio con gli uomini. Potrà
aiutarci in questo la valorizzazione – sia nella vita personale dei credenti
sia in quella delle comunità cristiane – della pratica della lectio
divina, intesa come continua e intima celebrazione dell’Alleanza con il
Signore mediante un ascolto orante delle Sacre Scritture, capace di trasformare
i nostri cuori e di iniziare ognuno di noi all’arte della preghiera e della
comunione. Più ampiamente, va coltivato l’assiduo
contatto, personale e comunitario, con
la Bibbia, diffondendone il testo, promuovendone la conoscenza, anche con
incontri e gruppi biblici, sostenendone una lettura sapienziale, aiutando a
pregare con la Bibbia soprattutto nelle famiglie[46].
La qualità sia della presidenza eucaristica, sia dell’omelia, sia della
preghiera dei fedeli ne risulterà rafforzata, resa più aderente alla parola di
Dio e agli eventi della storia letti alla luce della fede. È nostro modello la
Vergine Maria, che accoglie fatti e parole «meditandole nel suo cuore» (Lc
2,19) e rilegge la sua esistenza mediante immagini e testi della Scrittura (cf.
Lc 1,46-55). Una fede adulta e
«pensata»
50. – La valorizzazione
della liturgia non mira a sottrarci al rapporto vitale con il mondo di ogni
giorno, nel quale sono presenti opportunità per la nostra crescita cristiana,
insieme a sfide che non rendono agevole la nostra fedeltà ai valori evangelici. Per
questo, ci sembra importante che la comunità sia coraggiosamente aiutata a
maturare una fede adulta, «pensata», capace di tenere insieme i vari
aspetti della vita facendo unità di tutto in Cristo. Solo così i cristiani
saranno capaci di vivere nel quotidiano, nel feriale – fatto di famiglia,
lavoro, studio, tempo libero – la sequela del Signore, fino a rendere conto della speranza che li abita (cf. 1Pt 3,15). A questo obiettivo di maturità della fede, avendo
considerazione delle diverse età, cercando di fare unità tra ascolto,
celebrazione e esperienza testimoniale di fede, tende il progetto
catechistico delle nostre Chiese, impostato agli inizi degli anni ’70 e
arricchitosi via via di indicazioni e strumenti. Esso mantiene tutta la sua
attualità e va riproposto con fedeltà nelle nostre comunità, orientandolo più
esplicitamente nella prospettiva dell’evangelizzazione. Oggi questo progetto
deve tra l’altro connotarsi anche in senso più culturale. Già
nell’ormai lontano 1975 Paolo VI ammoniva la Chiesa tutta a riconoscere come
la rottura tra Vangelo e cultura fosse
senz’altro il dramma per eccellenza della
nostra epoca[47]. I cristiani possono
fecondare il tempo in cui vivono solo se sono continuamente attenti a cogliere
le sfide che provengono loro dalla storia, e se si esercitano a rispondervi alla
luce del Vangelo. La comunità cristiana deve
costituire il grembo in cui avviene il discernimento
comunitario, indicato nel convegno ecclesiale di Palermo del 1995 come
scuola di comunione ecclesiale e metodo fondamentale per il rapporto
Chiesa-mondo[48].
Oggi più che mai i cristiani sono chiamati a essere partecipi della vita della
città, senza esenzioni, portando in essa una testimonianza ispirata dal Vangelo
e costruendo con gli altri uomini un mondo più abitabile. Detto questo, non possiamo
tacere come in non poche comunità questo lavoro
formativo e di aiuto al discernimento dei giovani e degli adulti sia carente
o addirittura assente; è necessario allora maturare una decisione coraggiosa a
cambiare le cose. Se ciò non avverrà, mostreremo di essere ben poco realisti e
di non tener conto di quanto viene chiesto ogni giorno al cristiano comune negli
ambienti che caratterizzano la sua vita di famiglia, di lavoro, di scuola. Alle
risorse, a volte limitate di una realtà parrocchiale, verrà in aiuto la
sinergia tra più parrocchie, nonché
la relazione tra le comunità cristiane e le varie aggregazioni ecclesiali
presenti nel territorio; senza parlare delle associazioni professionali di
ispirazione cristiana e dei vari centri e istituti culturali cattolici, chiamati
anch’essi a prendere sul serio il loro compito di stimolo e di elaborazione di
una fede adulta e pensata a partire dall’ascolto intelligente delle Scritture
e della Tradizione. In
rapporto a questo impegno formativo, qualificante per il futuro, è certamente
di stimolo e di aiuto ciò che viene proposto in termini di progetto culturale orientato
in senso cristiano. Tutte le Chiese particolari e ciascuna delle nostre
piccole o grandi comunità devono prestare attenzione a questa conversione
culturale, in modo che il Vangelo sia incarnato nel nostro tempo per ispirare la
cultura e aprirla all’accoglienza integrale di tutto ciò che è
autenticamente umano[49]. Desideriamo
a questo proposito sottolineare che la creazione di occasioni per approfondire
tematiche cruciali alla luce della fede non
è una scelta elitaria, così come
non è affatto elitario chiedere alle comunità cristiane uno sforzo di pensiero
a partire dal Vangelo e dalla storia. Avere una vita interiore, custodire nella
memoria le cose, riflettere dentro di sé e nel confronto comunitario è quanto
di più umano ci sia dato, e non è certo appannaggio di pochi, perché la fede
è sempre ragionevole! I giovani e la
famiglia
51.
– Ci pare opportuno chiedere per gli anni a venire un’attenzione particolare ai giovani e alla famiglia[50].
Questo è l’impegno che affidiamo e raccomandiamo alla comunità cristiana. Partiamo
dai giovani, nei quali va riconosciuto
«un talento che il Signore ci ha messo nelle mani perché lo facciamo
fruttificare»[51].
Nei loro confronti le nostre comunità sono chiamate a una grande attenzione e a
un grande amore. È proprio a loro che vanno insegnati e trasmessi il gusto per
la preghiera e per la liturgia, l’attenzione alla vita interiore e la capacità
di leggere il mondo attraverso la riflessione e il dialogo con ogni persona che
incontrano, a cominciare dai membri delle comunità cristiane. Le Giornate
Mondiali della Gioventù ci hanno restituito molte speranze: abbiamo visto
moltissimi giovani attirati dal Gesù e dal suo Vangelo. Già abbiamo
sottolineato alcuni valori di cui il mondo moderno, talvolta con i giovani in
prima fila, è portatore. Va
detto però che ora abbiamo tutti una grande responsabilità: se non sapremo trasmettere
alle nuove generazioni l’amore per la vita interiore, per l’ascolto
perseverante della parola di Dio, per l’assiduità con il Signore nella
preghiera, per una ordinata vita sacramentale nutrita di Eucaristia e
Riconciliazione, per la capacità di «lavorare su se stessi» attraverso
l’arte della lotta spirituale, rischieremo di non rispondere adeguatamente a
una sete di senso che pure si è manifestata. Non solo: se non sapremo
trasmettere loro un’attenzione a tutto campo verso tutto ciò che è umano –
la storia, le tradizioni culturali, religiose e artistiche del passato e del
presente –, saremo corresponsabili dello smarrirsi del loro entusiasmo,
dell’isterilirsi della loro ricerca di autenticità, dello svuotarsi del loro
anelito alla vera libertà. Nel
decennio scorso ci eravamo volutamente soffermati sull’importanza del dare
fiducia ai giovani, di favorirne l’inserimento nel volontariato, in tutto ciò
che li aiuta a vivere il fine unico della vita cristiana, che è la carità.
Rimane vero, peraltro, che per amare da persone adulte, mature e responsabili,
bisogna saper assumere tutte le responsabilità della vita umana: studio,
acquisizione di una professionalità, impegno nella comunità civile. Le
esperienze forti possono tanto più giovare quanto più si coniugano con i
cammini ordinari della vita, che consistono nell’operare scelte di cui poi si
è responsabili. Occorre saper creare veri laboratori
della fede[52], in cui i giovani
crescano, si irrobustiscano nella vita spirituale e diventino capaci di
testimoniare la Buona Notizia del Signore. Occorre impegnarsi perché scuola e
università siano luoghi di piena umanizzazione aperta alla dimensione
religiosa, sostenere i giovani perché vivano da protagonisti il delicato
passaggio al mondo del lavoro, aiutare a dare senso e autenticità al loro tempo
libero. Certamente le nostre comunità sono chiamate a una grande attenzione e a
un grande amore per i giovani. In
questa direzione, avvertiamo la necessità di favorire un maggiore coordinamento
tra la pastorale giovanile, quella familiare e quella vocazionale: il tema della
vocazione è infatti del tutto
centrale per la vita di un giovane. Dobbiamo far sì che ciascuno giunga a
discernere la «forma di vita» in cui è chiamato a spendere tutta la propria
libertà e creatività: allora sarà possibile valorizzare energie e tesori
preziosi. Per ciascuno, infatti, la fede si traduce in vocazione e sequela del
Signore Gesù. 52.
– Per quanto riguarda la famiglia,
va ricordato che essa è il luogo privilegiato dell’esperienza dell’amore,
nonché dell’esperienza e della trasmissione della fede. La famiglia cristiana
è inoltre il luogo dell’obbedienza e sottomissione reciproca e della
manifestazione dell’alleanza tra Cristo e la Chiesa. La famiglia è l’ambiente
educativo e di trasmissione della fede per eccellenza: spetta dunque
anzitutto alle famiglie comunicare i primi elementi della fede ai propri figli,
sin da bambini. Sono esse le prime «scuole di preghiera», gli ambienti
in cui insegnare quanto sia importante stare con Gesù ascoltando i Vangeli che
ci parlano di lui. I coniugi cristiani sono i primi responsabili di quella «introduzione»
all’esperienza del cristianesimo di cui poi chi è beneficiario porterà in sé
il seme per tutta la vita. Proprio
per il ruolo delicato e decisivo della famiglia nella società, la Chiesa,
nonostante l’evidente crisi culturale dell’istituzione familiare, desidera
assumere l’accompagnamento delle
famiglie come priorità di importanza pari, in questi tempi, a quella della
pastorale giovanile. Invitiamo tutti gli operatori pastorali a promuovere
riflessioni serie sui perché delle frequenti crisi matrimoniali, pensando con
creatività a rinnovare l’annuncio cristiano sul matrimonio, per dare forza,
ragioni e coraggio alle coppie in difficoltà. Per questo contiamo molto sulla solidarietà
tra le famiglie, ma anche sulla creazione di nuove
forme ministeriali tese ad ascoltare, accompagnare e sostenere una realtà
dalla quale molto dipende il futuro della Chiesa e della stessa società. Le
nostre parrocchie dovrebbero essere sempre più luoghi di ascolto e di sostegno
delle famiglie in difficoltà, avendo ben chiaro che la medicina dell’amore
fraterno e della misericordia è l’unica in cui la Chiesa creda fermamente. A
questo fine, una delle scelte da compiere è quella di riuscire a stabilire, da
parte delle comunità cristiane, attraverso i presbiteri, i religiosi e gli
operatori pastorali, rapporti personali con ogni famiglia – sia che frequenti
la Chiesa sia che non la incontri mai – in un tessuto relazionale nuovo,
veramente capillare. In
questo come in altri ambiti della pastorale è particolarmente importante il
contributo che le donne potranno portare
affinché la Chiesa assuma un volto diverso, più sensibile e più umano. Non si
dà pienezza di umanità senza che uomo e donna si esprimano liberamente e
pienamente, secondo i rispettivi doni. 53.
– Concludendo queste indicazioni dedicate alla comunità dei fedeli che si
raccolgono con assiduità attorno all’Eucaristia e alla sua funzione cruciale
nella comunicazione della fede, non possiamo non dire qualcosa sul ruolo dei
presbiteri e dei loro collaboratori. Desideriamo
ringraziarli, e con loro i nostri diaconi, per l’impegno generoso,
testimoniato in un’epoca nella quale è divenuto difficile e spesso assai poco
gratificante il servizio alla comunità cristiana e a quella umana più in
generale. Noi Vescovi li sentiamo vicini e vogliamo ribadire tutta la nostra
solidarietà e la nostra gratitudine con parole chiare e forti. Le
osservazioni pastorali che abbiamo appena formulato chiamano in causa anzitutto
proprio i sacerdoti. Sono loro i presidenti
della comunità che si raduna nella celebrazione dell’Eucaristia e dunque
spetta a loro promuovere una celebrazione della liturgia che sappia formare i
cristiani al sensus fidei, alla
capacità di gustare la parola di Dio e all’acquisizione del sentire di
Cristo. Inoltre, nelle comunità si avverte un accresciuto bisogno di iniziatori
e di accompagnatori nella vita spirituale: i presbiteri devono valorizzare
sempre più la loro missione di padri
nella fede e di guide nella vita
secondo lo Spirito, evitando con grande cura di cadere in un certo «funzionalismo».
In tal modo, sorretti dalla fraternità presbiterale e dalla solidarietà
pastorale, essi potranno essere i servi della comunione ecclesiale, coloro che
conducono a unità i carismi e i ministeri nella comunità, gli educatori
missionari di cui tutti abbiamo bisogno. 54.
– Chiesa di Dio, insieme a noi, ministri ordinati, sono i laici; di loro il
Signore si serve per la testimonianza e la comunicazione del Vangelo in mezzo
agli uomini. Oltre a essere esperti in un determinato settore pastorale (carità,
catechesi, cultura, lavoro, tempo libero…) devono crescere nella capacità di
leggere nella fede e sostenere con
sapienza il cammino della comunità nel suo insieme. C’è bisogno di laici
che non solo attendano generosamente ai ministeri tradizionali, ma che sappiano
anche assumerne di nuovi, dando vita a forme inedite di educazione alla fede e
di pastorale, sempre nella logica della comunione ecclesiale. Riconoscendo
l’importanza e la preziosità di questa presenza, si provvederà, da parte
delle diocesi e delle parrocchie, anche alla destinazione coraggiosa e
illuminata di risorse per la formazione dei laici. In
questo contesto vogliamo esprimere gratitudine e insieme attesa nei confronti di
quelle realtà, alcune nuove, altre antiche, prima fra tutte l’Azione
Cattolica, che contribuiscono ad arricchire in maniera considerevole la comunità,
come le associazioni e i movimenti
ecclesiali. La fede cristiana, infatti, non pretende di omologare e di
appiattire le varie sensibilità religiose dei credenti; lo Spirito suscita in
ogni epoca carismi idonei ad arricchire la Chiesa e a sostenerla nella sua
missione. Naturalmente ognuna di queste realtà dev’essere sottoposta a
discernimento[53]:
già nella prima lettera di Giovanni i cristiani erano invitati a mettere «alla
prova le ispirazioni» (1Gv 4,1); i veri carismi dello Spirito contribuiscono
sempre a riconoscere Gesù Cristo «venuto nella carne» (1Gv 4,2), a discernere
la sua presenza in tutti i fratelli cristiani e a riconoscere nella comunità,
nel Corpo ecclesiale del Risorto, il luogo in cui convergono e da cui partono
tutti i carismi e le vocazioni. 55.
– Un’ultima parola, nell’orizzonte della vita ordinaria delle nostre
comunità, vogliamo dedicare alle devozioni
popolari. Esse arricchiscono la comunità nella misura in cui esprimono un
desiderio di approfondimento religioso e di preghiera: si tratta infatti di un
linguaggio che il popolo parla e comprende. Come ricordava Paolo VI, con esse «tocchiamo
un aspetto dell’evangelizzazione che non può lasciare insensibili… Per
lungo tempo considerate meno pure, talvolta disprezzate, queste espressioni
formano oggi un po’ dappertutto l’oggetto di una riscoperta»[54].
Bisogna naturalmente vigilare perché non si sostituiscano ai momenti ordinari
di vita liturgica della comunità parrocchiale, come pure alle forme di
meditazione e di preghiera, personale e comunitaria, legate ai grandi filoni di
spiritualità della tradizione cristiana, antichi e recenti. Lo stesso Paolo VI
ammoniva ad affrontare tali espressioni nel quadro generale del rinnovamento
pastorale, anche perché la storia ci dice che la devozione popolare «è
frequentemente aperta alla penetrazione di molte deformazioni della religione,
anzi di superstizioni. Resta spesso a livello di manifestazioni culturali senza
impegnare un’autentica adesione di fede»[55].
Ma cercare di comprendere questo linguaggio, purificarlo e vivificarlo, permette
di far incontrare con la fede la vita di tanta gente semplice e disponibile. Una rinnovata
attenzione a tutti i battezzati
56.
– Abbiamo parlato fin qui dei
cristiani che partecipano attivamente alla vita delle parrocchie, o che
perlomeno frequentano assiduamente l’eucaristia domenicale; ma al centro della
nostra preoccupazione missionaria ci sono anche tutti quegli uomini
e quelle donne che, pur avendo ricevuto
il battesimo, non vivono legami di piena e stabile comunione con le nostre
Chiese locali. Il
riferimento al battesimo richiama anzitutto al nostro pensiero i cristiani
appartenenti ad altre Chiese e comunità ecclesiali, «coloro
che credono in Cristo e hanno ricevuto debitamente il battesimo» e che «sono
costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica»[56].
Non è possibile, per un cristiano che ascolti con attenzione le parole del suo
Signore Gesù Cristo, restare indifferente alla sua preghiera al Padre «perché
tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21). L’ecumenismo
è una sfida fondamentale perché è una verifica
della nostra fedeltà al Vangelo;
ma è anche una grande scuola di comunione:
proprio di fronte ai cristiani di altre Chiese e comunità ecclesiali,
palesemente «diversi» da me, sono chiamato a riconoscere quell’unità che, a
dispetto delle differenze, ci lega e ci chiama a una comunione sempre più
piena. Vivere l’impegno ecumenico può essere di grande aiuto anche per
riscoprire le vie che portano alla riconciliazione in seno alle nostre stesse
comunità parrocchiali e viceversa. Non si dà unità senza il rispetto delle
differenze, senza portare i pesi gli uni degli altri, ma soprattutto senza cercare
insieme la verità che è l’unica vera fonte di unità, nonché l’unica
ragione del nostro esistere come comunità ecclesiali: Gesù Cristo, l’unico
nostro Signore. 57. – La stessa ricerca
della piena comunione induce a una sempre più convinta attenzione nella
pastorale della Chiesa verso i cosiddetti
«non praticanti», ossia verso quel gran numero di battezzati che, pur non
avendo rinnegato formalmente il loro battesimo, spesso non ne vivono la forza di
trasformazione e di speranza e stanno ai margini della comunità ecclesiale[57].
Sovente si tratta di persone di grande dignità, che portano in sé ferite
inferte dalle circostanze della vita familiare, sociale e, in qualche caso,
dalle nostre stesse comunità, o più semplicemente sono cristiani abbandonati,
verso i quali non si è stati capaci di mostrare ascolto, interesse,
simpatia, condivisione. Questa
area umana, cresciuta in modo rilevante negli ultimi decenni, chiede un
rinnovamento pastorale: un’attenzione
ai battezzati che vivono un fragile rapporto con la Chiesa e un impegno di primo
annuncio, su cui innestare un vero e proprio itinerario
di iniziazione
o di ripresa della loro vita cristiana. In
primo luogo, si tratta di valorizzare quei
momenti in cui le parrocchie incontrano concretamente quei battezzati che
non partecipano all’eucaristia domenicale e alla vita parrocchiale: quando i
genitori chiedono che i loro bambini siano ammessi ai sacramenti
dell’iniziazione cristiana; quando una coppia di adulti domanda la
celebrazione religiosa del matrimonio; in occasione dei funerali e dei momenti
di preghiera per i defunti; alcune feste del calendario liturgico nelle quali
anche i non praticanti si affacciano alla porta delle nostre chiese. Tutti
questi momenti, che a volte potrebbero essere sciupati da atteggiamenti di
fretta da parte dei presbiteri o da freddezza e indifferenza da parte della
comunità parrocchiale, devono diventare preziosi momenti
di ascolto e di accoglienza. Solo a partire da una buona qualità dei
rapporti umani sarà possibile far risuonare nei nostri interlocutori
l’annuncio del Vangelo: essi l’hanno ascoltato, ma magari sonnecchia nei
loro cuori in attesa di qualcuno o di qualcosa che ravvivi in loro il fuoco
della fede e dell’amore. Gli
stessi fanciulli battezzati hanno
bisogno di essere interpellati dall’annuncio del Vangelo nel momento in cui
iniziano il loro cammino catechistico. Sempre più spesso, infatti, non si può
presupporre quasi nulla riguardo alla loro educazione alla fede nelle famiglie
di provenienza. L’incontro con i catechisti diviene per i fanciulli una vera e
propria occasione di «prima
evangelizzazione». È importante che venga annunciato loro il Vangelo della
vita buona, bella e beata che i cristiani possono vivere sulle tracce del
Signore Gesù. Vitale è la qualità kerygmatica e mistagogica degli incontri: i
fanciulli vanno condotti a compiere l’atto di fede, il gesto della preghiera,
la partecipazione alla liturgia e soprattutto a trovare alimento costante nel
rapporto con Gesù, lasciandosi accompagnare dalla sua vita narrata dai Vangeli.
Questa attenzione dovrà accompagnare ancor più la catechesi dei ragazzi e dei
giovani e ci dovrà sospingere a
ripensare costantemente l’iniziazione cristiana nel suo insieme e gli
strumenti catechistici che l’accompagnano. 58.
– Ma, al di là delle occasioni in cui ogni battezzato viene a contatto con la
comunità eucaristica, ci sembra importante che i cristiani più consapevoli
della loro fede, insieme con le loro comunità, non si stanchino di pensare a forme
di dialogo e di incontro con tutti coloro che non sono partecipi degli
ordinari cammini della pastorale. Nella vita quotidiana, nel contatto
giornaliero nei luoghi di lavoro e di vita sociale si creano occasioni
di testimonianza e di comunicazione del Vangelo. Qui si incontrano
battezzati da risvegliare alla fede, ma anche sempre più numerosi uomini e
donne, giovani e fanciulli non battezzati, eredi di situazioni di ateismo o
agnosticismo, seguaci di altre religioni. Diventa difficile stabilire i confini
tra impegno di rivitalizzazione della
speranza e della fede in coloro che, pur battezzati, vivono lontani dalla
Chiesa, e vero e proprio primo annuncio del
Vangelo. Su questi terreni di frontiera va incoraggiata l’opera di
associazioni e movimenti che si spendono sul versante dell’evangelizzazione. Occorre
inoltre tener presente che ormai la nostra
società si configura sempre di più
come multietnica e
multireligiosa. Dobbiamo affrontare un capitolo sostanzialmente inedito del
compito missionario: quello dell’evangelizzazione di persone condotte tra noi
dalle migrazioni in atto. Ci è chiesto in un certo senso di compiere la
missione ad gentes qui nelle nostre terre. Seppur con molto rispetto e
attenzione per le loro tradizioni e culture, dobbiamo essere capaci di
testimoniare il Vangelo anche a loro e, se piace al Signore ed essi lo
desiderano, annunciare loro la parola di Dio[58],
in modo che li raggiunga la benedizione di Dio promessa ad Abramo per tutte le
genti (cf. Gen 12,3)[59]. 59.
– La comunità cristiana dev’essere sempre pronta a offrire
itinerari di iniziazione e di catecumenato
vero e proprio. Nuovi percorsi sono richiesti infatti dalla presenza non più
rara di adulti che chiedono il battesimo, di «cristiani della soglia» a cui
occorre offrire particolare attenzione, di persone che hanno bisogno di cammini
per «ricominciare». La nostra «conversione pastorale» è, in qualche misura,
già in atto ed è sollecitata dai cambiamenti nella società e di fronte alla
fede. Ci è richiesta intelligenza, creatività, coraggio. Occorrerà impegnare
le nostre migliori energie in questo campo, mediante una riflessione
teologico-pastorale e attraverso l’individuazione di concrete e significative
proposte nelle nostre comunità; sarà fondamentale garantire un’adeguata
preparazione a tutti coloro che, in prima persona, risulteranno coinvolti a nome
della comunità ecclesiale in tali iniziative di evangelizzazione. Anche in
questo ambito di iniziazione e di rivitalizzazione della fede è importante il
contributo di associazioni e movimenti ecclesiali. Al
centro di tale rinnovamento va collocata la scelta di configurare la pastorale
secondo il modello della iniziazione
cristiana, che – intessendo tra loro testimonianza e annuncio, itinerario
catecumenale, sostegno permanente della fede mediante la catechesi, vita
sacramentale, mistagogia e testimonianza della carità – permette di dare unità
alla vita della comunità e di aprirsi alle diverse situazioni spirituali dei
non credenti, degli indifferenti, di quanti si accostano o si riaccostano al
Vangelo, di coloro che cercano alimento per il loro impegno cristiano. 60.
– Occasione importante di apertura alle nuove sfide della pastorale è
indubbiamente il dialogo culturale sui grandi temi della nostra società e della vita
quotidiana. Incontri di dialogo e di confronto – iniziative da assumere con
discernimento – possono essere un grande beneficio per i cristiani. Il dialogo
infatti aiuta ad ascoltare e a capire meglio il cuore dei loro contemporanei, e
spesso, in tal modo, a capire meglio la vita e lo stesso Vangelo. In secondo
luogo, il dialogo permette la crescita di relazioni umane, di scambi fecondi e
arricchenti per tutti. Solo condividendo le angosce e le speranze, le ricerche e
le difficoltà di chi ci sta accanto, sarà possibile trasmettergli la speranza
che sgorga dalla nostra fede. L’insegnamento
sociale della Chiesa ha sempre insistito sulla
collaborazione con gli «uomini di buona volontà». Proprio perché il
Vangelo divenga cultura e questo seme divino possa dare i suoi frutti più belli
nella storia, noi cristiani vivremo nella compagnia degli uomini l’ascolto e
il confronto, la condivisione dell’impegno per la promozione della giustizia e
della pace, di condizioni di vita più degne per ogni persona e per tutti i
popoli, fiduciosi in un arricchimento reciproco per il bene di tutti. 61.
– In rapporto a quanto si è detto e perché a tutti coloro che l’attendono
sia donata la parola del Vangelo, è importante la presenza significativa dei
fedeli laici negli ambienti di vita. Il riconoscimento della laicità dello Stato e
delle sue istituzioni non ci sottrae dal dovere di collaborare al bene del
Paese: costituisce piuttosto il terreno della piena cittadinanza dei cattolici
italiani. Alla sua vita essi partecipano sostenuti dalla convinzione che il
fermento del Vangelo non è un bene loro esclusivo, ma un dono da condividere,
perché contributo decisivo per creare condizioni di piena umanità per tutti. Sentiamo
così di condividere la speranza con i tanti giovani che sono in ricerca di un
lavoro, o con tutti quei lavoratori che faticano a trovare punti di riferimento
nella complessità e precarietà del mondo del lavoro. La stessa attenzione e
partecipazione riteniamo che i laici cristiani devono poter offrire alla scuola
e all’università, interessate da processi di trasformazione in cui occorre
ribadire le ragioni dell’educazione della persona nella sua globalità e nella
reale libertà. Ancora, il mondo della salute chiede una presenza che garantisca
il pieno rispetto dei valori della vita e della persona e assicuri l’accesso
di tutti alle cure di cui hanno bisogno. Processi di umanizzazione piena e vera
socializzazione toccano anche l’ambito sempre più ampio del tempo libero, con
le attività sportive e turistiche ad esso connesse. La stessa attività
propriamente politica non può fare a meno del contributo dei fedeli laici:
competente, responsabile e coerente, nel rispetto del valore della persona umana
e dei principi fondamentali di libertà e solidarietà, nella ricerca del bene
comune. L’intera
società, nei suoi vari ambiti, è attraversata da un processo di cambiamenti
profondi e accelerati. Diventa prioritaria, di conseguenza, una lettura attenta
di tali contesti, onde poter rilanciare una pastorale
d’ambiente sempre più indispensabile per compaginare la comunità
battesimale, per raggiungere quanti sono in attesa dell’annuncio cristiano,
per dare efficacia al contributo dei cattolici alla vita della società. Qui si
inserisce l’esigenza di una sempre maggiore vitalità dell’associazionismo
sociale e professionale di ispirazione cristiana, come pure, in forma diversa,
dell’apporto di quanti hanno scelto di essere nel mondo testimoni del Regno
negli istituti secolari o in altre forme di consacrazione personale. La
pastorale d’ambiente richiederà che le parrocchie ripensino le proprie forme
di presenza e di missione e il loro rapporto
con il territorio, aprendosi alla collaborazione con le parrocchie
confinanti e a un’azione concertata con associazioni, movimenti e gruppi che
esprimono la loro carica educativa soprattutto negli ambienti. Dove questa
dimensione della pastorale eccede la parrocchia, sarà fondamentale il
riferimento alla Chiesa diocesana: è responsabilità e compito dei Vescovi,
infatti, dare un volto autenticamente ecclesiale al generoso impegno che le
varie forme di apostolato dei cristiani esprimono in seno alla loro diocesi. In
questa prospettiva intendiamo sostenere con attenzione e speranza il cammino
dell’Azione Cattolica, da cui, in
particolare, ci attendiamo un’esemplarità formativa e un impegno che, mentre
si fa sensibile alle necessità pastorali delle parrocchie, contribuisca a
rinvigorire, mediante la testimonianza apostolica tipicamente laicale dei suoi
aderenti, il dialogo e la condivisione della speranza evangelica in tutti gli
ambienti della vita quotidiana. 62.
– Vogliamo infine sottolineare come tutti i cristiani, in forza del battesimo
che li unisce al Verbo diventato uomo per noi e per la nostra salvezza, siano
chiamati a farsi prossimi agli uomini
e alle donne che vivono situazioni di
frontiera: i malati e i sofferenti, i poveri, gli immigrati, le tante
persone che faticano a trovare ragioni per vivere e sono sull’orlo della
disperazione, le famiglie in crisi e in difficoltà materiale e spirituale. Il
cristiano, sull’esempio di Gesù, «buon samaritano», non si domanda chi è
il suo prossimo, ma si fa egli stesso prossimo all’altro, entrando in un
rapporto realmente fraterno con lui (cf. Lc 10,29-37), riconoscendo e amando in
lui il volto di Cristo, che ha voluto identificarsi con i «fratelli più
piccoli». Giovanni Paolo II ricorda che la pagina del giudizio in cui Cristo
chiama «benedetti» quelli che si sono fatti prossimi a lui nei piccoli (cf. Mt
25,31-46) non riguarda solo l’etica, ma è innanzitutto «una pagina di
cristologia che proietta un fascio di luce sul mistero di Cristo»[60].
Ai credenti è chiesto di prendere a cuore tutte queste forme, nuove e antiche,
di povertà e a inventare nuove forme di solidarietà e di condivisione: «è
l’ora di una nuova fantasia della carità»[61].
Su
questo terreno della carità le nostre comunità sono state invitate a un
particolare impegno nell’ultimo decennio, ribadendo l’intima connessione tra
Evangelizzazione e testimonianza della
carità. Nel momento in cui avviamo un nuovo decennio, anch’esso sulla
linea della evangelizzazione, le istanze indicate agli inizi degli anni ’90
mantengono tutt’intera la loro validità. In particolare resta sempre attuale
la necessità di pensare che ogni attività evangelizzatrice è per sua natura
indirizzata verso una concreta testimonianza della carità e che in ogni azione
di carità va resa evidente la sua identità profonda di rivelazione
dell’amore stesso di Dio. In questo modo si fanno emergere le radici
trinitarie e cristologiche della carità, per cui il Vangelo di Gesù è
servizio di carità e la vera carità è il dono del Vangelo. Nel quadro di vari
gesti di attenzione a tale testimonianza, sarebbe bello anche riprendere
l’invito del Convegno ecclesiale di Palermo a far sorgere in ogni comunità,
accanto agli spazi per il culto e la catechesi, una struttura di servizio per i
poveri. La
prospettiva del servizio della carità ci dà occasione di rivolgerci ai religiosi,
chiamati proprio in virtù della loro scelta di vita, che li rende «poveri e
marginali», a essere segno di speranza, testimoniando la possibilità data a
ogni uomo di abitare le frontiere della società e della vita trovandovi un
senso, una ragione per cui è possibile vivere e dare la vita. Perché questo
avvenga, sarà necessario che essi si consacrino alla conoscenza amorosa di Dio,
fino a far sì che la loro esistenza diventi segno della presenza di Dio fra gli
uomini. Ognuno secondo il proprio carisma: i religiosi di vita apostolica
andando incontro attivamente ai bisogni e alle sofferenze degli uomini, quelli
di vita contemplativa praticando con amore e dedizione il ministero
dell’ospitalità. Insieme
con i religiosi, però, abbiamo bisogno di laici
che siano disposti ad assumersi dei ministeri con fisionomia missionaria in
tutti i campi della pastorale a cui abbiamo accennato. Diventando cioè
catechisti, animatori, responsabili di «gruppi di ascolto» nelle case,
visitatori delle famiglie, accompagnatori delle giovani coppie di sposi: uomini
e donne pienamente disponibili a riallacciare quei rapporti di comunione tra le
persone che soli possono dar loro un segno di speranza. Questo significa essere
corresponsabili del servizio di Cristo all’uomo: servizio che costituisce la
ragione per cui la Chiesa esiste e continua la sua missione nella storia. CONCLUSIONE Una vita di comunione «Perché
anche voi siate in comunione con noi» (1Gv 1,3) Una Chiesa di
discepoli e di inviati
63.
– «La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano
chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei,
venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi!”. Detto questo,
mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io
mando voi”» (Gv 20,19-21). Il Signore mostra i segni della sua Passione: il
Risorto è l’Agnello, che ha preso su di sé le nostre sofferenze, le nostre
sconfitte, i nostri fallimenti, i nostri peccati, per mostrarci una via di luce
nelle tenebre. Ora egli invia i suoi discepoli: la Chiesa è fin dall’inizio missionaria. Ma
ciò che è fondamentale, è quel «come» sulla bocca di Gesù: «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi». Il Verbo ha
compiuto la sua missione scendendo, calandosi in ogni nostra oscurità, con
umiltà e con un profondo amore per gli uomini, per tutti noi peccatori. Anche
la Chiesa, allora, non potrà seguire altra via che quella della kènosis
per rivelare al mondo il Servo del Signore, l’Agnello di Dio che porta i
peccati del mondo. Per questo san Paolo chiede a Tito di insegnare ai suoi
fedeli a «esser mansueti, mostrando ogni dolcezza verso tutti gli uomini» (Tt
3,2). Lo stesso san Paolo, proprio perché
consapevole della sua condizione di peccatore perdonato, di «vaso di
misericordia» (cf. Rm 9,23), a cui Dio ha mostrato la via della vita nella sua
infinita misericordia, comprende che l’unico modo per rivolgersi agli uomini
in maniera conforme alla grazia ricevuta è quello di parlare loro in ginocchio:
«Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor
5,20). Per questo la Chiesa ha bisogno
soprattutto di santi, di uomini che diffondano il buon profumo di Cristo con
la loro mitezza, mostrando piena consapevolezza di essere servi della
misericordia di Dio manifestatasi in Gesù Cristo. 64. – È questa la via che porta
alla fecondità: la Chiesa umile e serva,
che scende accanto agli uomini, soffrendo con loro in ogni loro debolezza, può
trasmettere davvero il Verbo della vita fino a far rinascere la speranza e la
gioia nei cuori degli uomini. Per questo l’apostolo Paolo legge le sue
sofferenze e umiliazioni apostoliche come le doglie necessarie perché Cristo
sia formato nei suoi interlocutori (cf. Gal 4,19). Ma la
Chiesa può essere realmente madre
solo se compie la volontà del Padre, se ascolta la sua Parola e si lascia
trasformare da essa giorno dopo giorno: «Chi compie la volontà di Dio, costui
è mio fratello, sorella e madre» (Mc 3,35), ha detto Gesù. Per rinnovare il nostro apostolato,
il nostro slancio missionario, che è servizio alla missione dell’Inviato del
Padre, dovremo perciò essere sempre i primi ad ascoltare assiduamente la parola
di Dio, a lasciarci permeare della sua grazia, a convertirci instancabilmente.
In tutto questo trova fondamento la nostra esperienza di fede, fino all’ultimo
giorno della nostra vita. Una Chiesa «casa e scuola di
comunione»
65.
– Raggiunti dall’amore di Dio «mentre noi eravamo ancora peccatori» (Rm
5,8), siamo condotti ad aprirci alla solidarietà con tutti gli uomini, al
desiderio di condividere con loro l’amore misericordioso di Gesù che ci fa
vivere. La Chiesa è totalmente
orientata alla comunione. Essa è e dev’essere sempre, come ricorda Giovanni
Paolo II, «casa e scuola di comunione»[62]. La
Chiesa è casa, edificio, dimora
ospitale che va costruita mediante l’educazione a una spiritualità
di comunione. Questo significa far spazio costantemente al fratello,
portando «i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2). Ma ciò è possibile solo se,
consapevoli di essere peccatori perdonati, guardiamo
a tutta la comunità come alla comunione di coloro che il Signore santifica
ogni giorno. L’altro non sarà più un nemico, né un peccatore da cui
separarmi, bensì «uno che mi appartiene». Con lui potrò rallegrarmi della
comune misericordia, potrò condividere gioie e dolori, contraddizioni e
speranze. Insieme, saremo a poco a poco spinti ad allargare il cerchio di questa
condivisione, a farci annunciatori della gioia e della speranza che insieme
abbiamo scoperto nelle nostre vite grazie al Verbo della vita. Soltanto
se sarà davvero «casa di comunione», resa salda dal Signore e dalla Parola
della sua grazia, che ha il potere di edificare (cf. At 20,32), la Chiesa potrà
diventare anche «scuola di comunione».
È importante che ciò avvenga: in ogni luogo le nostre comunità sono chiamate
a essere segni di unità, promotori di comunione, per additare umilmente ma con
convinzione a tutti gli uomini la
Gerusalemme celeste, che è al tempo stesso la loro «madre» (Gal 4,26) e
la patria verso la quale sono incamminati. In essa, come ricorda l’Apocalisse,
Dio «dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il “Dio-con-loro”.
E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né
lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,3-4). Le
differenze saranno accolte e riconciliate, le sofferenze troveranno senso e
definitiva consolazione e la morte stessa perderà ogni suo potere di fronte
alla comunione nell’amore, alla partecipazione estesa a ogni uomo della vita
trinitaria. Ma
non dimentichiamo l’avvertimento di Giovanni Paolo II: «Non ci facciamo
illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli
strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz’anima,
maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita»[63]. 66.
– Il Papa ha invitato tutte le Chiese particolari a «prendere il largo»: Duc
in altum! (Lc 5,4), sono le parole di Gesù che egli sente risuonare nel suo
cuore di Pastore della Chiesa universale. È l’invito più giusto per
impostare nei prossimi anni il nostro cammino pastorale. Certo,
alcuni di noi, osservando alcuni fenomeni negativi, potrebbero lasciarsi andare
a un certo pessimismo. Ma la Chiesa conosce un solo criterio per
rinnovare ogni giorno la speranza: essa sa che «fedele è Dio», dal quale
siamo stati «chiamati alla comunione del Figlio suo Gesù Cristo, Signore
nostro!» (1Cor 1,9). Coloro che ascoltano davvero il loro Signore non si
preoccupano nemmeno di possibili insuccessi. Dicono con Pietro: «Maestro,
abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola
getterò le reti» (Lc 5,5). 67. – Nei
prossimi anni compiremo dunque un cammino guidato da un costante riferimento al
Concilio Vaticano II e dal suo messaggio. Alcuni passi saranno: -
l’impegno
per una pastorale della santità, perché la Chiesa sia la Sposa santa del
Signore che viene; -
la
comunicazione del Vangelo ai fedeli, a quanti vivono nell’indifferenza e
ai non cristiani, qui nelle nostre terre e nella missione
ad gentes; -
il
rinnovamento della vita delle nostre comunità, attraverso la centralità data
alla domenica, il primato dell’ascolto della Parola, anche nella lectio
divina, e la vita liturgica che abbisogna di una conoscenza più
approfondita; -
il
percorrere vie di comunione, perché la Chiesa, vera scuola di comunione,
possa chiamare tutti gli uomini alla comunione con Cristo; -
l’impegno
dei fedeli laici alla testimonianza
evangelica, all’assunzione di nuove forme ministeriali, soprattutto a essere,
nella società e nei diversi ambienti di vita, capaci di vigilanza profetica e
costruttori di una città terrena in cui regnino sempre di più la giustizia, la
pace, l’amore. 68. – La
presenza del Signore «sempre con noi» (cf. Mt 28,20) e
dello Spirito Santo, che accompagna ogni cristiano e tutta la Chiesa nel
cammino verso il Padre, ispirino il lavoro pastorale delle singole Chiese in
Italia e rendano fruttuosa la fatica apostolica che ci attende nei prossimi anni
del terzo millennio. Questo
nostro cammino avviene sotto la sguardo di
Maria, la madre del Signore, e conta sulla sua intercessione. Ella ha
acconsentito al mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio, ha ascoltato e
realizzato la parola di Dio, è figura della Chiesa santa, serva del Signore e
madre dei credenti, è donna di fede obbediente, pronta a sperare contro ogni
speranza, piena dell’amore di Dio e capace di carità senza confini. A lei
affidiamo con piena fiducia il nostro cammino in attesa della venuta del Signore. Appendice INDICAZIONI
PER UNA “AGENDA PASTORALE” DEL
PROSSIMO DECENNIO Concilio
Vaticano II Accogliendo
l’invito del Santo Padre Giovanni Paolo II, occorre prevedere, nel prossimo
decennio, una ripresa dei documenti del Concilio Vaticano II (soprattutto delle
quattro grandi costituzioni), perché siano profondamente meditati nelle nostre
comunità e diventino concretamente la «bussola» che ci orienta in questo
nuovo millennio. 1.
Ragioni della speranza L’anno giubilare ha messo
in primo piano l’evento dell’Incarnazione, che testimonia la partecipazione
piena di Dio alla vita dell’uomo e apre per l’uomo un sentiero di vita
eterna. Dopo avere privilegiato negli orientamenti pastorali dello scorso
decennio la virtù teologale e l’esperienza concreta della carità, al centro
del nostro interesse si colloca ora la speranza. Si tratta di: a)
cogliere
l’originalità e la ricchezza teologica e pedagogica della speranza, in un
contesto culturale, come quello attuale, che ne è molto povero; b)
individuare atteggiamenti e scelte che rendano la Chiesa una comunità a
servizio della speranza per ogni uomo. 2.
Vie per la comunicazione Il tema di fondo di questo
documento è la «comunicazione del Vangelo in un mondo che cambia»; dovremo
pertanto approfondire, in vario modo, il compito della trasmissione della fede.
Si tratta di: a)
coglierne l’originalità e le esigenze, in quanto comunicazione
dell’evento del mistero cristiano; b)
sostare, con grande senso di responsabilità, sul capitolo delle
comunicazione della fede ai giovani; c)
riflettere sul valore della comunicazione sociale, sulla situazione
attuale e sulle iniziative che vanno sostenute o che attendono di essere
avviate; d)
approfondire
alcuni sentieri particolarmente significativi della comunicazione (ad es.
comunicazione e arte, nuove tecnologie…). 3.
Qualità della formazione La condizione storica nella
quale ci troviamo raccomanda, anzi esige, una vigorosa scelta formativa dei
cristiani. Si tratta di: a)
garantire qualità formativa (nel senso dell’incontro con Cristo e
della comunione con lui fino alla santità, del dare ragione della speranza che
abbiamo nel cuore, dell’accrescere la nostra ricchezza di umanità) a ogni
momento e incontro proposto alle nostre comunità: iniziazione cristiana,
omelia, catechesi, colloqui personali, lavoro nei gruppi, ecc.; b)
dare spazio a momenti propriamente culturali, portando a livello di base
(diocesi, vicariati, parrocchie, gruppi, ecc.) l’intento di cui è
espressione, a livello di Chiesa italiana, il «progetto culturale orientato in
senso cristiano», con una forte attenzione alle domande antropologiche che ogni
giorno il dibattito pubblico e la cronaca introducono nelle nostre case; c)
ripensare
coraggiosamente il volto spirituale che è dato di incontrare, in questi anni, a
chi osserva le nostre comunità: c’è forse una mediocrità da combattere e
l’urgenza di pensare la vocazione universale alla santità, mirando a tradurla
quotidianamente in pedagogia e pastorale della santità. 4.
Esigenze della missione In
un tempo di secolarizzazione e nel quale la nostra società diventa multietnica
e multiculturale, la comunicazione del Vangelo rende necessario compiere una
paziente e coraggiosa revisione di tutto il tessuto pastorale delle nostre
comunità dal punto di vista missionario. Ciò significa una vera «conversione
pastorale». Si tratta, per esempio, di: a)
soffermarsi sulla fisionomia della comunità eucaristica domenicale per
mettere a fuoco, in vario modo, la scelta di farla diventare una reale comunità
di discepoli che si lasciano evangelizzare e che poi, uscendo dalla
celebrazione, mostrano una crescente passione apostolica; b)
domandarsi quali passi concreti si possono e si debbono compiere perché
le nostre comunità cristiane si facciano carico di tutti i battezzati,
valorizzando le opportunità già esistenti e immaginandone di nuove; c)
rileggere dal punto di vista missionario la formazione degli operatori
pastorali, nonché il lavoro dei consigli pastorali parrocchiali e delle
commissioni impegnate in ambiti specifici, valutando i temi che vengono
privilegiati e lo stile con cui sono affrontati; d)
assumere decisamente una prassi di comunione che, a partire da una
costante educazione del sensus fidei,
allena al «discernimento comunitario» cristiano, riconoscendo in tal modo
tutti i doni che lo Spirito effonde e percorrendo insieme e corresponsabilmente,
pastori e fedeli, i sentieri del Vangelo; e)
rilanciare e valorizzare la presenza e l’azione dei laici espressa
dalle aggregazioni ecclesiali e dalle associazioni professionali di ispirazione
cristiana nei vari ambienti di vita; f)
verificare le scelte formative di coloro che si preparano a diventare
presbiteri e la formazione permanente dei sacerdoti, perché siano veramente
padri nella fede e acquisiscano una mentalità missionaria; g)
dare tempo e spazio a un serio approfondimento del senso, dei modi e
degli strumenti con cui mettere in atto un lavoro di «primo annuncio», di
accompagnamento al battesimo di persone che si convertono al cristianesimo, di
approfondimento di un serio cammino di catecumenato, con l’aiuto delle
indicazioni date in questi anni dalla Conferenza episcopale; h)
riflettere
sulla creazione e valorizzazione di nuovi ministeri laicali di tipo missionario:
visitatori delle famiglie, moderatori di gruppi di ascolto, responsabili di
incontri con gli adulti, in particolare con i genitori che chiedono i sacramenti
dell’iniziazione cristiana per i loro figli, ecc. Anno
pastorale 2001-2002 È
bene fare di questo primo anno un tempo quasi di preludio. Guardiamo al futuro
chiedendoci come dare forma, in ognuna delle nostre diocesi lungo il prossimo
anno, anche a un «evento ecclesiale», che favorisca largamente il
coinvolgimento delle nostre comunità nei propositi espressi dal Papa nella
lettera apostolica Novo millennio ineunte
e da noi vescovi in questi orientamenti pastorali. INDICE Presentazione Introduzione –
Al servizio della gioia e della
speranza di ogni uomo (nn. 1-2) –
Attingendo alla Parola della
vita
(nn. 3-4) –
Assumendo il cammino percorso
insieme dal Concilio ad oggi (nn. 5-6) –
La chiamata alla conversione e
l’eloquenza della santità (nn. 7-9) Capitolo Primo: LO
SGUARDO FISSO SU GESÙ, L’INVIATO DEL PADRE –
Gesù, l’Inviato dal Padre
(nn. 10-15) –
Gesù in mezzo a noi (nn.
16-23) –
Gesù, il Risorto (nn.
24-28) –
Gesù, colui che viene (nn.
29-31) Capitolo Secondo: LA
CHIESA A SERVIZIO DELLA MISSIONE DI CRISTO –
Per una missione senza confini (nn.
32-35) –
Discernere l’oggi di Dio (nn.
36-43) –
Quali compiti per il prossimo
decennio? (nn.
44-46) –
Il giorno del Signore e la
parrocchia, tempo e spazio per una comunità realmente eucaristica
(nn. 47-49) –
Una fede adulta e “pensata”
(n. 50) –
I giovani e la famiglia
(nn. 51-55) –
Una rinnovata attenzione a tutti
i battezzati (nn. 56-62) Conclusione: UNA
VITA DI COMUNIONE –
Una Chiesa di discepoli e di
inviati
(nn. 63-64) –
Una Chiesa “casa e scuola di
comunione”
(n. 65-68) Appendice INDICAZIONI
PER UNA “AGENDA PASTORALE” DEL PROSSIMO DECENNIO [1] Cf. Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, 1: AAS 58 (1966) 1025-1026. [2] Cf. Sant’Agostino, Sermo 383, 3. [3]
Giovanni Paolo II, Lettera
apostolica Novo millennio ineunte,
57: OR, 8-9 gennaio 2001, 6. [4] Cf. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Catechesi tradendae: AAS 71 (1979) 1277-1340; Id., Lettera enciclica Redemptor hominis, 15-16: AAS 71 (1979) 286-295. [5] Cf. Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Tertio millennio adveniente, 40-42: AAS 87 (1995) 31-32. [6]
Cf. Ibidem, 44-46: AAS 87
(1995) 33-34. [7]
Cf. Ibidem, 49-53: AAS 87 (1995) 35-37. [8] Cf. Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen gentium, 8: AAS 57 (1965) 12. [9] Cf. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 48: OR, 8-9 gennaio 2001, 5. [10]
Cf. J.H. Newman, Meditations and Devotions, London - New York - Bombay, 1907, 365. [11] Cf. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 15: OR, 8-9 gennaio 2001, 3. [12]
Cf. Ibidem, 29: OR, 8-9 gennaio 2001, 4. [13]
Cf. Ibidem, 4: OR, 8-9 gennaio 2001, 2. [14] Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 3: AAS 58 (1966) 1027; cf. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Tertio millennio adveniente, 56: AAS 87 (1995) 39. [15] Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 15: OR, 8-9 gennaio 2001, 3. [16]
Sant’Ireneo di Lione,
Demonstratio praedicationis apostolicae, Prol., 12. [17] Cf. Sant’Agostino, De civitate Dei, 12, 20, 4. [18] Cf. Sant’Ireneo di Lione, Adversus haereses, 3, 16, 6. [19]
San Tommaso d’Aquino, Summa
theologiae, III, q. 1, a. 2; cf. Sant’Agostino,
De Trinitate, 13, 17, 22. [20]
Giovanni Paolo II, Lettera
sul pellegrinaggio ai luoghi legati alla storia della salvezza, 1: OR,
30 giugno-1 luglio 1999, 8. [21]
Concilio Ecumenico Vaticano II,
Cost. past. Gaudium
et spes, 22: AAS
58 (1966) 1042. [22] Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 18: OR, 8-9 gennaio 2001, 3. [23]
Cf. Ibidem, 27: OR, 8-9
gennaio 2001, 4. [24]
San Bernardo di Chiaravalle,
Sermo V in Adventu Domini, 1. [25] Messale Romano, Prefazio dell’Avvento I/A. [26]
Concilio Ecumenico Vaticano II,
Cost. past. Gaudium
et spes, 22: AAS
58 (1966) 1043. [27] San Giovanni della Croce, Avisos y sentencias, 57. [28]
Sant’Isacco di Ninive,
Sermones ascetici, Collatio prima,
5. [29] Cf. Sant’Agostino, Sermo 88, 14, 13. [30] Cf. San Giovanni Cassiano, Conlatio 11, 13. [31]
Cf. Giovanni Paolo II, Lettera
enciclica Redemptoris missio, 20: AAS
83 (1991) 267-268. [32] Cf. Messale Romano, Preghiera eucaristica III. [33] Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 15: OR, 8-9 gennaio 2001, 3. [34] Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, 7: AAS 68 (1976) 9. [35]
Cf. Lettera a Diogneto,
5-6. [36] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptoris missio, 37: AAS 83 (1991) 285. [37]
San Giuseppe Cottolengo, sull’esempio di San Vincenzo de’ Paoli,
amava dire che «i poveri sono i nostri padroni» (cf. Fiori
e profumi raccolti dai detti di san Giuseppe Benedetto Cottolengo,
Torino 1997, 33-34: detto n. 19). [38]
Cf. Giovanni Paolo II,
Esortazione apostolica post-sinodale Christifideles laici, 57-63: AAS
81 (1989) 506-518. [39]
Conferenza Episcopale Italiana,
Con il dono della carità dentro la
storia. La Chiesa in Italia dopo il Convegno di Palermo. Nota pastorale,
23: Notiziario CEI 1996, 173. [40] Cf. Ibidem, 32: Notiziario CEI 1996, 181. [41] Cf. Consiglio Episcopale Permanente, L’amore di Cristo ci sospinge. Lettera alle comunità cristiane per un rinnovato impegno missionario, 3: Notiziario CEI 1999, 136. [42] Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 16-17: OR, 8-9 gennaio 2001, 3. [43]
Cf. Ibidem, 35-36: OR, 8-9
gennaio 2001, 4. [44] Cf. Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Dies Domini: AAS 90 (1998) 713-766; cf. anche Conferenza Episcopale Italiana, Il giorno del Signore. Nota pastorale: Notiziario CEI 1984, 177-195. [45] Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, 1124. [46] Cf. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 39: OR, 8-9 gennaio 2001, 4; cf. anche Commissione Episcopale per la dottrina della fede e la catechesi, La Bibbia nella vita della Chiesa. “La parola del Signore si diffonda e sia glorificata” (2Ts 3,1). Nota pastorale: Notiziario CEI 1995, 381-412. [47]
Cf. Paolo VI, Esort. ap.
Evangelii nuntiandi, 20: AAS
68 (1976) 18-19. [48] Cf. Conferenza Episcopale Italiana, Con il dono della carità dentro la storia. La Chiesa in Italia dopo il Convegno di Palermo. Nota pastorale, 21: Notiziario CEI 1996, 171-172; cf. anche Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 43-45: OR, 8-9 gennaio 2001, 5. [49]
Cf. Conferenza Episcopale
Italiana, Con il dono della
carità dentro la storia, 25: Notiziario CEI 1996, 175-177. [50] Cf. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 9; 40; 47: OR, 8-9 gennaio 2001, 2; 5; 5. [51]
Ibidem, 40: OR, 8-9 gennaio
2001, 5. [52] Cf. Giovanni Paolo II, Omelia durante la veglia a Tor Vergata per la XV Giornata Mondiale della Gioventù, 2-3: OR, 21-22 agosto 2000, 4-5. [53]
Cf. Giovanni Paolo II, Esort.
ap. Christifideles
laici, 30: AAS 81 (1989) 446-448;
cf. anche Commissione Episcopale per
il laicato, Le aggregazioni
laicali nella Chiesa. Nota pastorale: Noziario
CEI 1993, 81-119. [54]
Paolo VI, Esort. ap. Evangelii
nuntiandi, 48: AAS 68 (1976) 37.
[55]
Ibidem. [56]
Concilio Ecumenico Vaticano II,
Decreto Unitatis redintegratio,
3: AAS 57 (1965) 93. [57]
Cf. Giovanni Paolo II, Lett.
enc. Redemptoris missio, 33: AAS
83 (1991) 278-279. [58] Cf. San Francesco d’Assisi, Regula non bullata, 16. [59] Cf. Consiglio Episcopale Permanente, L’amore di Cristo ci sospinge, 7: Notiziario CEI 1999, 139-142. [60] Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 49: OR, 8-9 gennaio 2001, 5. [61]
Ibidem, 50:
OR, 8-9 gennaio 2001, 6. [62] Ibidem,
43: OR, 8-9
gennaio 2001, 5. [63] Ibidem. |
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